Da una settimana il regime del presidente Omar al Bashir, al potere dal 1989, è messo a dura prova dalle proteste di massa imperversanti in tutto il Sudan. Prolungati anni di cattiva gestione dell’economia, corruzione dilagante e scarsissimi investimenti pubblici hanno comportato il progressivo peggioramento delle condizioni di vita della popolazione. Si è ora giunti ad un punto di rottura: la sopravvivenza del regime potrebbe essere messa seriamente in discussione se le incredibili mobilitazioni di questi giorni – tra le più conflittuali degli ultimi decenni – sapranno mantenere il legame tra radicalità politica e ampia partecipazione popolare.

LA RIVOLTA È SCOPPIATA a causa delle deprivazioni materiali che la popolazione da troppo tempo soffre, ma appare evidente come la “domanda politica” delle mobilitazioni sia molto più ampia. I sudanesi reclamano la fine del regime e così facendo richiamano la Primavera all’interno dello scacchiere regionale. Non è più il tempo di limitarsi a chiedere riforme economiche a chi non ha alcun piano per uscire dall’annosa crisi e a chi fino ad ora ha rappresentato solo un élite nazionale capace di arricchirsi a detrimento della collettività.

Quando nel 2011 il Sud Sudan optò per la secessione dal nord del Paese in seguito a un referendum sull’indipendenza, il Sudan subì una mutilazione del 25% del territorio e perse la maggior parte dei pozzi petroliferi che dal 1999 concedevano buoni guadagni alle sue finanze. Così il regime ha tentato di diversificare le proprie entrate, ma i ricavi non si sono rivelati all’altezza di quelli garantiti dalla dipendenza petrolifera. In più, l’elevata spesa in armamenti (funzionale al mantenimento dei conflitti in Darfur, Blue Nile e Monti Nuba) ha ridotto sempre più la capacità di investire nel benessere della popolazione.

PER ANNI IL REGIME SI È DIFESO affermando che la scarsità della spesa sociale e, in generale, la debolezza dell’economia nazionale era dovuta all’impatto delle ventennali sanzioni Usa (inflitte per il presunto sostegno al terrorismo internazionale e le violazioni dei diritti umani in Darfur). Tuttavia, la loro cancellazione nel 2017 da parte di Trump (il processo di rimozione era stato inaugurato da Obama) non ha comportato sostanziali benefici.

Il valore della sterlina sudanese ha approfondito il suo declino, mentre il tasso di inflazione ha raggiunto il 70%. Il prezzo delle merci è in costante aumento: ottenere food and fuel è ogni giorno più difficile e la situazione è stata aggravata dalla scelta del regime (su pressione del Fondo monetario internazionale) di interrompere i sussidi all’acquisto di grano. Molti forni hanno potuto accaparrarsi solo piccole quote di farina e la domanda è lontana dall’essere soddisfatta.

EPICENTRO DELLA RIVOLTA è stata Atbara, città situata nel nord del Paese. Varie componenti sociali (negozianti, autisti, ristoratori, studenti…) si sono riversate nelle strade per urlare la loro rabbia contro il governo.

Le proteste hanno presto assunto un carattere fortemente bellicoso: alcuni manifestanti hanno assaltato il quartier generale del National Congress Party (il partito al governo) per poi darlo alle fiamme. Il medesimo atto si è ripetuto contro le proprietà di importanti membri locali del partito. Mentre la polizia ha espresso la propria vicinanza agli uomini delle istituzioni, parte dell’esercito ha solidarizzato con la popolazione.

Quanto avvenuto ad Atbara ha prontamente scatenato una reazione a catena. Nei giorni successivi altre città sono entrate in stato di agitazione: Berber e Shendi nel nord; Port Sudan nel nordest; Gedaref e Wad Medani nel sudest; al-Abyad e Umm Ruwaba nel sudovest. Infine, il centro geografico e politico del Paese: Omdurman e Khartoum.

IN PARTICOLARE, il ruolo del mondo studentesco risulta dirimente nella capitale. Le lezioni sono sospese in numerosi poli universitari e i giovani, che si organizzano grazie ai social network aggirando i blocchi governativi, ogni giorno si incontrano agli incroci stradali dando inizio a cortei. Ahmed è entusiasta di condividere le battaglie con i suoi colleghi dell’Università: «Siamo il futuro di questo Paese. È nostra responsabilità farlo rinascere e dunque combatteremo affinché ciò avvenga. Tale impegno è per noi un obbligo, non un’opzione scartabile».
I giovani sono coloro che più volentieri rilasciano interviste, desiderosi di far sentire la loro voce. Al contrario, figure più note della società rimangono ancora silenti per ragioni di sicurezza personale. Dopotutto, fino ad ora il Presidente ha reagito con la repressione.

SONO STATI ARRESTATI membri dell’opposizione, difensori dei diritti umani e giornalisti. Più di un centinaio sono coloro che hanno subito ferite durante gli scontri di piazza in seguito all’utilizzo di proiettili e vari esplosivi (oltre ai lacrimogeni) da parte della polizia. I morti, invece, sono circa una decina secondo Boshara Juma, portavoce del governo, quasi 40 secondo Amnesty International.