ExtraTerrestre

La foresta di Manaus

Reportage Viaggio nella capitale dell’Amazzonia. Dove c’è la foresta urbana più grande al mondo e le barche dei pescatori attraversano il Rio

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 8 dicembre 2022

Tutte le volte che l’aereo plana dai cieli e poi atterra nel piccolo aeroporto di Manaus si rinnova la meraviglia. Oltre il groviglio di costruzioni avvolte nella fittissima foresta verde, dall’oblò scorgo il seducente serpentario di acque scure del Rio, la loro superficie lucida e il labirinto creato dai bracci luccicanti di quello che chiamano «fiume mondo». Questa è la capitale dell’Amazzonia, due milioni di abitanti, la sesta economia del Brasile, ma è il Rio che da sempre gli dà vita con i battelli colorati che scivolano sulle sue acque, le barche dei pescatori che escono o fanno rientro al porto, i facchini che scaricano i bastimenti, così come i popoli indigeni che vivono nei villaggi vicini e nelle loro terre ancestrali della foresta pluviale. Anzi, i due fiumi, per essere precisi, il Rio Solimoes e il Rio Negro, che qui si incontrano e creano, sotto il ponte avveniristico lungo 4 chilometri e largo 22 metri, con 73 campate, quel fenomeno definito Encontro das Águas. Lì corrono fianco a fianco senza mescolarsi, ed è un miracolo che avviene per la differenza di temperatura, densità e velocità delle acque: infatti il primo scorre a circa 2 km all’ora a una temperatura di 28 °C mentre l’altro a 4-6 km all’ora a 22 °C, ma il fenomeno avviene anche per il color ocra del Solimoes e quello nero del secondo che è così scuro perché ha attraversato le paludi stagnanti della foresta Amazzonica.

LA PRIMA COSA CHE TI COLPISCE A MANAUS è la luce abbagliante, una chiarore iperrealistico che diventa livido quando il fiato della foresta, la sua umidità pungente, come un’amante possessiva bagna pelle e indumenti, fa sudare mentre cammini per le vie del centro fino in Largo de São Sebastião e senti forte l’avventura dei sensi. Perché a Manaus quel sentimento di selvaggio intorno non ti abbandona mai ed è la sua cifra più profonda. Lì il teatro Amazonas dalla facciata rosa è una apparizione, un pezzo di architettura europea trapiantata ai Tropici, simbolo dell’epopea del caucciù e di quella che era chiamata «piccola Parigi», dove una leggenda dice che abbia cantato il grande Caruso, di cui si era infatuato anche Fitzcarraldo, il personaggio del film di Herzog, quel Brian Sweeney Fitzgerald che nella finzione cinematografica proprio qui l’aveva sentito cantare, si era infatuato dell’opera lirica, e si era messo in testa di costruire un teatro a Iquitos, in Perù. Per farlo dovette trascinare una nave a vapore di trecentoventi tonnellate fino a un’altura per poi riportarla sul Rio delle Amazzoni. Dalle parti del Teatro è facile incrociare un venditore di pacchetti turistici di quelli svelti di lingua e persuasivi che ti porterà in barca per due, tre o più giorni nel cuore della giungla, dove in un villaggio indigeno potrai mangiare grandi formiche fritte, avvolgerti intorno al collo come una ghirlanda un gelido anaconda, prendere in braccio un bradipo sonnacchioso, o immergerti nelle acque del fiume dove potrai carezzare il delfino rosa, così come vivere una esperienza indimenticabile dentro la selva. Altrimenti a nord di Manaus comunque c’è la foresta urbana più grande del mondo, più di cento chilometri quadrati, e al Musa, Museu da Amazônia, diretto dal fisico di origini italiane Ennio Candotti, allestito all’aperto e nato da una costola della Riserva Forestale Adolpho Duckee, che prende il nome dello studioso triestino che classificò alcune centinaia di piante della foresta. Stivali ai piedi, si può attraversare il suggestivo percorso di 100 ettari, perdersi tra le luci e le ombre della vegetazione e avvertire gli odori dei legni e delle resine, quelle dei rampicanti, ascoltare i versi degli uccelli che si spostano tra le fronde, e visitare il vivaio con i serpenti (boa, guambaby, papa-pinto), il grande acquario, e il lago delle Vittorie amazzoniche, ninfee chiamate così in onore della regina Vittoria d’Inghilterra. Alla fine del percorso c’è la torre di osservazione di acciaio, che si erge sopra la foresta a 42 metri di altezza, e superati i 242 gradini la vista della vertiginosa e sconfinata selva ci si trova di fronte a una immersione visiva e percettiva di grande impatto emotivo.

UN ALTRO EDIFICIO DI FASCINO che si trova tra il porto idroviario e quello merci, al centro di un quartiere di negozi e carretti con la frutta all’aperto sempre molto affollato e colorato, venditori di amache dai tessuti sgargianti e maglie sportive di tutti i club brasiliani, Fluminense, Corintians, Botafogo, tra gli altri, è L’Adolpho Lisboa Municipal Market. Costruito a somiglianza di quello di Les Halles di Parigi, è un lungo edificio dagli intonaci arancio e ocra che si affaccia sulle sponde del fiume con dentro bancarelle di souvenir artigianali ma anche banchi ricolmi di gamberetti freschi, e ai lati minuscoli posto ristoro con pochi tavoli spartani e ospitali dove si può mangiare a poco prezzo dell’ottimo pesce amazzonico (tambaqui, pirarucu, matrinxã) accompagnato da riso, fagioli, vinagrete e farofa. Di lato a questo palazzo c’è il mercato del pesce. Varcata la soglia, dietro i molti banchi ingorgati di pesci freschi di tutte le dimensioni, il teatro vivente della vendita al dettaglio, mani sapienti di pescivendoli corpulenti che tagliano velocissimi e squamano piranha, pirarucú, tucunarée, tambaquí di diverse dimensioni, gridando da una parte all’altra parole di incitamento all’acquisto. Di fonte c’è il maestoso Rio con le sue grandi navi ormeggiate, che Pablo Neruda definì «capitale delle sillabe dell’acqua» e «lento come un giro di pianeta», e i facchini che risalgono il greto con le merci tenute ben salde sulle spalle.

L’ATMOSFERA SANGUIGNA DEI BAR di Manaus, dove si beve birra a fiumi, è qualcosa di molto corporale, come da Armando in Largo San Sebastiao, con i grandi ventilatori che soffiano dai quattro lati e il soffitto tappezzato di bandiere, lì puoi sederti all’aperto sui tavolini sul lato della strada trafficata e bere cerveza frìa, birra ghiacciata, insieme agli altri pigri avventori. Ancora meglio al Caldeira, il mio preferito, dove si esibiva Vinicio De Morales e si suona musica dal vivo fino a notte tarda, dal conio ancora più popolare e conviviale, lì seduti intorno ai tavolini all’aperto possono conversare o cantare insieme allegramente eleganti signori borghesi, impiegati che da poco hanno abbandonato l’ufficio, insieme a prostitute e anziani boccaloni. Appena ti siedi e ordini, velocemente il cameriere ti serve la tua Bohemia o Brahma doppio malto ghiacciata in thermos di plastica, e quando ne hai bevuta una ti invita a far fuori la seconda come fanno tutti gli altri, allora entri in empatia con il luogo mentre i tamburi rullano, la chitarra suona e la voce di un cantante scandisce il ritmo frenetico di una rumba. La vita del locale si svolge fuori, dentro i tavoli sono sempre semivuoti, e dietro il bancone campeggiano come totem grandi frigoriferi con dentro impilate le bottiglie.

C’È ANCHE UNA PICCOLA LIBRERIA dove torno ogni volta, proprio di lato al Teatro, Banco do Largo, lì il mio amico Joaquim Melo vende libri di antropologia e storia dell’Amazzonia, ed è una delle più specializzate del Brasile, un gazebo colorato di verde di tre metri per tre con un minuscolo bancone e scaffali dove sono conservati libri molto rari che qui vengono ad acquistare professori universitari e antropologi di tutto il mondo affascinati dal cosmo indigeno. Quando entri puoi ascoltare un brano di musica popolare di Caetano Veloso, Chico Barque, oppure i canti rituali dei popoli della foresta mentre il condizionatore in fondo soffia aria refrigerata. «Sull’Amazzonia si è creato un mito dal viaggio di Francisco da Orellana, arrivano qui da San Paolo o da Rio De Janeiro, ma anche dagli Stati Uniti, dalla Colombia» mi ha raccontato questo libraio colto dai capelli corti e la carnagione olivastra, laureato in Economia all’Università di Natal. «Una volta è venuto il direttore del Museo di antropologia di Berlino e cercava un solo libro, Due anni tra gli indigeni di Grünberg, è uscito con una pila enorme di tomi, non finiva più di comprare», racconta divertito. È stato lui una volta ad accompagnarmi a casa del poeta Thiago De Mello, amico e traduttore di Pablo Neruda, che viveva qui in centro, scomparso ultranovantenne qualche anno fa. Non c’è stato poeta latino-americano che più di lui ha vissuto in comunione con la cosmologia indigena, e quando gli chiesi di raccontarmi del suo mondo, disse istintivo, guardandomi intensamente negli occhi, con fare profetico e aulico: «quando mia madre mi allattava, il primo ricordo è lo scorrere del fiume visto per la prima volta dalla finestra, il Rio delle Amazzoni, vivere è conoscere la gente dentro lo stesso flusso come noi in questo momento». Pensare che fino a tre anni prima, al risveglio, tutte le mattine, Thiago faceva la sua passeggiata dentro la foresta, e pronunciava i suoi versi a voce alta, mentre camminava nel folto, passo dopo passo, recitava le sue parole ai pesci, agli alberi, agli uccelli, alle scimmie, e sillabava persino al vento.

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