La solidarietà di Cuba con il governo di Ortega in Nicaragua è stata espressa in forma forte e chiara. Sia dal ministero degli esteri che dai mass media. In un articolo pubblicato da Juventud Rebelde –quotidiano dei giovani comunisti- Marina Menéndez, analista ed ex direttrice del giornale, spiega chiaramente i motivi di questo sostegno incondizionato. «Una situazione di origine suppostamente sociale – il rifiuto della riforma delle pensioni- si è convertita in una crisi politica che cerca di creare motivi per un intervento straniero e l’abbattimento del governo sandinista».

La «centrale» di questa politica interventista è l’amministrazione Trump- che chiama a raccolta «la destra imperialista» – e lo schema è quello già sperimentato delle «rivoluzioni colorate» (dalla Georgia alla Tunisia) con lo scopo di «attuare un golpe suave: abbattere un governo senza bisogno di baionette o stivali».

Per rompere il ciclo già sperimentato di autoritarismo, rivolta civile, repressione e minaccia di intervento straniero viene sostenuta la «politica di dialogo» iniziata dal presidente Ortega. «Il vertice politico cubano è ovviamente preoccupato della crisi in Nicaragua che si somma a quelle di altri paesi – Venezuela e Ecuador -del «nocciolo duro» dell’Alleanza bolivariana voluta da Hugo Chávez e Fidel Castro e soprattutto della nuova aggressività dell’amministrazione Trump» afferma il professore Esteban Morales, uno dei maggiori esperti della politica degli Usa.

«Vi sono molti segnali che il presidente Trump abbia delegato la politica latinoamericana al senatore della Florida Marco Rubio, noto per le sue posizioni radicali anti Cuba e che di recente ha chiesto di aumentare le sanzioni statunitensi contro il Nicaragua previste dal Nica Act».

In sostanza la crisi in Nicaragua aumenta il pericolo di un progressivo isolamento di Cuba in un momento assai delicato, quello di un rinnovamento generazionale al vertice che ha lo scopo di accelerare le riforme per un «socialismo prospero e sostenibile».

Dietro queste preoccupazioni è evidente però la sensazione che la rivolta degli studenti in Nicargua possa segnare un momento di svolta, ovvero una crisi terminale del governo di Ortega. Quello che appare certo è che il presidente del Nicaragua affronta una nuova e pericolosa realtà: oltre alla prospettiva di una rivolta popolare vi sono segnali concreti della rottura dell’alleanza con la élite degli imprenditori (riuniti nel Cosep) e della leadership conservatrice della Chiesa cattolica ed evangelica. Questa alleanza, in nome della stabilità economica e della pace sociale, è stata essenziale per il governo di Ortega fin dal suo ritorno al potere nel 2007. E in effetti il Nicaragua è stato uno dei paesi più stabili dell’America centrale evitando la violenza delle bande (pandillas) e il narcoterrorismo. «Il prezzo però è stato troppo alto» sostiene l’analista López Oliva. «Durante gli ultimi undici anni Ortega ha cooptato tutti i poteri del governo, mettendo le radici di un potere personale e famigliare. Insomma è ben lontano dal leader rivoluzionario marxista sandinista che aveva il sostegno dei lavoratori, dei movimenti sociali progressisti e intellettuali».