Paul Manafort, l’ex presidente del comitato elettorale di Donald Trump, è stato condannato per frode fiscale dal tribunale di Alexandria, Virginia, a tre anni e 11 mesi di carcere (a cui verranno scalati i nove mesi già passati in prigione) e a pagare 25 milioni di dollari in restituzioni e 50mila dollari di multa.

Sebbene sia una sentenza molto più lieve del previsto, è la pena più dura tra quelle inflitte per i casi scaturiti dalle indagini sul Russiagate.

Manafort era finito nel mirino del procuratore speciale Robert Mueller, che indaga sul Russiagate, per il suo lavoro in Ucraina e i legami con uomini vicini al Cremlino. Nel corso della sua carriera di consulente di politici stranieri, per lo più russi, aveva messo a punto un sistema ben organizzato al fine di depositare milioni di dollari su conti esteri, nascondendo la sua vera ricchezza alle banche americane.

Nonostante si sia presentato ingrigito davanti al giudice, sulla sedia a rotelle e i piedi fasciati per via della gotta e abbia dichiarato «Dire che mi sento umiliato e mi vergogno è il minimo», Manafort non ha manifestato alcun rimorso per le azioni e gli illeciti commessi. Ma ciò non ha influenzato l’entità della pena, decisamente inferiore a quella chiesta dall’accusa, dai 19 ai 24 anni.

Secondo il giudice Ellis, conservatore nominato da Reagan, anche se i crimini commessi da Manafort sono definibili come «molto gravi», una pena come quella richiesta dall’accusa sarebbe stata comunque eccessiva: secondo il parere del giudice, il quasi settantenne Manafort avrebbe vissuto complessivamente una vita «priva di colpa».

L’atteggiamento di Manafort, così come le parole del suo avvocato che ai giornalisti ha continuato a ripetere che dal processo non è scaturita nessuna prova di collusione tra la campagna presidenziale e la Russia, sono sembrate indirizzate a un unico interlocutore, vale a dire Trump, dal quale Manafort si aspetta di ricevere una grazia presidenziale per non aver collaborato con le indagini, a differenza di altri «traditori» come l’ex direttore della Nsa, la National Security Agency, Michael Flynn e l’ex avvocato e faccendiere personale di Trump, Michael Cohen, tutti caduti nelle maglie del Russiagate.

In realtà Manafort si era dichiarato colpevole di aver fatto lobby negli Stati uniti per Viktor Yanukovych, l’ex presidente dell’Ucraina, e lo scorso settembre aveva detto di voler collaborare alle indagini del procuratore speciale. Ma dopo qualche settimana l’ex consulente è stato accusato da Mueller stesso di continuare a mentire agli investigatori e di rifiutarsi di fornire informazioni davvero rilevanti al Russiagate. E così la cooperazione è stata interrotta.

L’ordalia legale di Paul Manafort, però, non finisce qui. Il 13 marzo, a Washington Dc, arriverà una seconda sentenza, questa volta per cospirazione e intralcio alla giustizia.