Roland Barthes l’aveva già definita la migliore sociologa francese, quando nel 1982 la fumettista francese Claire Bretécher, madre della satira femminista e geniale critica del conformismo degli anticonformisti, pubblicava Les mères (Le Madri, Bompiani, 1983), libro in cui smontava con decisione l’ideale idillico della maternità, le raccomandazioni, i timori indotti e l’immagine necessariamente appagata delle madri, per riportarla in un mondo fatto anche di cellulite, delusione, di crudo realismo. A un mese dalla scomparsa di Bretécher, piace pensare che il fumetto The Pregnancy Comics Journal (Feltrinelli) di Sara Menetti, e le vignette di Alice Socal seguano questa strada: le abbiamo intervistate per capire come sia fare la mamma a fumetti.

Sara, la nascita del diario è raccontata all’interno del libro stesso, ma il volume Feltrinelli ha una storia editoriale precedente…
Sì, una lunga storia iniziata sul mio account personale di Instagram (@saravanstukk) dove ho cominciato a condividere qualche vignetta senza un piano ben preciso. Appena mi sono sentita pronta nel dare una struttura al racconto, sono passata al sito di Mammaiuto.it, il collettivo di autori di fumetti di cui faccio parte; nell’arco di un paio d’anni ho pubblicato tutto il fumetto online, con cadenza settimanale. Parallelamente ho lavorato alla versione cartacea autoprodotto, uscita a Lucca C&G 2019 e adesso il volume è in libreria per Feltrinelli Comics.

Il fumetto come terapia contro la paranoia e i dubbi esistenziali?
È all’incirca dal 2011 che disegno questa personaggina senza naso e con i capelli raccolti in un cipollotto, che sbatte la faccia contro la mia vita vera e cerca di risolvere dubbi e drammi su carta. Mi è sempre stato di grande aiuto scrivere, disegnare e poi rileggere; la ricerca del segno e delle parole adatte a esprimere un determinato stato d’animo mi aiuta a filtrare con più ordine tutto quello che è fonte di apprensione e sgomento. Mi piace anche leggere le storie altrui: sono un’amante dei fumetti autobiografici, come essere in balia delle emozioni, mi fanno sentire meno sola.

Si nota una completa libertà nell’organizzazione della storia, del testo verbale e di quello grafico. Un modo per far correre i pensieri?
Sì, non ho voluto precludermi nessuna strada nella gestione della tavola e del racconto: fino a poche settimane dalla data prevista per la consegna non sapevo nemmeno quante pagine sarebbero state. Lavorando in autoproduzione non mi sono data limiti né gabbie perché ero consapevole di poter usare spazi e parole in completa libertà, ed era proprio quello di cui avevo bisogno dato il tema delicato; per fare una buona narrazione dovevo sentirmi assolutamente a mio agio, tranquilla nel raccontare le mie vicende personali e divertirmi nel farlo, altrimenti sarebbe venuto fuori un lavoro pesante. Penso che il lato ludico emerga dalle pagine del volume. Poter sperimentare con le soluzioni grafiche è stato un aspetto molto stimolante.

La confusione emotiva è protagonista assoluta del libro; ci sono però anche aspetti meno vistosi, e altrettanto importanti come il problema di coniugare maternità e precarietà o maternità e partita iva. Cosa ne pensa?
Ho provato e provo sulla mia pelle la difficoltà e le preoccupazioni di essere freelance con una persona in più a carico. Dopo aver messo in pausa i miei lavori i primi mesi successivi al parto (molto a malincuore, perché adoro quello che faccio) ho pensato spesso che avere una forma di aiuto – simile al periodo di maternità che hanno le lavoratrici dipendenti – mi avrebbe aiutato a vivere quel periodo più serenamente, magari per la parte strettamente economica: da libera professionista, per me è valsa la regola che se non si lavora, non si guadagna. Senza tutele né aiuti è naturale che i freelance nella mia stessa situazione ci pensino mille volte prima di mettere su famiglia. Per fortuna, abbiamo avuto la possibilità di accedere al servizio di asilo nido, che è un altro enorme aiuto per i neogenitori lavoratori.

Il libro sembra dar voce a quella miriade di donne che non si immaginano necessariamente solo come mamme. Qualcuna di loro ha accompagnato questo percorso?
Sì, ho ricevuto molto sostegno sia da amiche che da persone che mi scrivevano tramite il web o i social. Bastava poi poco, un messaggino, una parola di incoraggiamento… la mia speranza è che questo libro possa avere incoraggiare altre persone: farle sentire meno sole e meno «sbagliate».

La pressione sociale è forte ed è spesso molto difficile per una donna capire se vuole o non vuole figli. Non crede che la difficoltà della scelta dipenda anche da questo?
Il discorso è molto ampio ed entrano in gioco mille variabili differenti, così come differenti sono le storie e le esperienze di ognuna di noi, ma la pressione sociale sul fare figli è un ombrello che copre le teste di tutte. Ci sono donne che riescono ad acquisire gli strumenti e la consapevolezza per valutare serenamente la propria situazione e le proprie necessità, e possono compiere una scelta libera dalle aspettative altrui; molte invece non hanno la stessa possibilità, e questa è una grossa lacuna da parte di tutto il sistema. Ragionare sui propri sentimenti e desideri, al netto da quello che «gli altri» proiettano su di noi, è fondamentale, ma tutte dovrebbero essere messe nelle condizioni di poterlo fare: la mancanza di questa opportunità equivale al raccontare una bugia sulle possibilità di scelta di vita che ognuna ha.

Alice, che scopo ha il disegno durante la maternità e subito dopo: documentazione o terapia?
Il primo post che ho pubblicato su Instagram era una sorta di annuncio. Superata la fase critica delle prime 12 settimane ho voluto celebrare la gravidanza con un post che riassumesse le passate settimane (stanchezza e nausea e altri sintomi).
Ho cercato un approccio positivo e ottimista dopo un’esperienza di gravidanza finita in un intervento d’urgenza al pronto soccorso, una gravidanza non cercata ma non indesiderata. Volevo parlare anche di questo, perché sebbene comuni, aborti spontanei o simili sono purtroppo un argomento tabù che coglie molte donne impreparate, come è successo a me. Non ho trovato il coraggio di affrontare il tema sui social ma, fatto outing, ho continuato a raccontare di questa gravidanza felice. È nato un bel dialogo con altre persone incinte e non, illustratrici e non, utile per affrontare momenti di insicurezza e perplessità e sentirsi meno sole.

Spesso ha rappresentato sé e il suo bimbo come animaletti antropomorfi: una foca durante la gravidanza, un cagnolino e un gattino poco dopo; a volte però ci sono incursioni più realistiche. Da cosa dipende questa scelta?
La foca simbolizza la gravidanza: una silenziosa e ingombrante presenza, sempre sorridente, rassicurante ma anche inquietante. I protagonisti di #pregnantcatcomicstrip invece sono un gatto gravido e un partner cane. Per anni ho avuto difficoltà a disegnare personaggi umani con caratteristiche femminili. Forse non ero interessata o non volevo sentirmi o essere vista come donna, femmina, volevo essere neutrale e così sono i miei personaggi. Nel tempo questo è cambiato, sono contenta e soddisfatta di appartenere al mio genere. La gravidanza è stata per me uno strumento utile per capire la trasformazione, la complessità e le capacità del corpo femminile. Grazie anche a queste trasformazioni mi sono sentita a mio agio e ho potuto disegnare il personaggio in modo più realistico.
Nelle sue vignette emergono anche le criticità, gli aspetti non semplici, quelli meno romantici del diventare mamma. Quali sono quelli su cui si tace di più e che invece destato il suo interesse?
L’idea di mettere al mondo un ulteriore essere umano può risultare a dire poco terrorizzante. L’essere responsabili per un altro essere umano per i prossimi 18 anni scatena una serie di insicurezze e paure mastodontiche. Il mondo in cui viviamo è un disastro eppure continuiamo a essere indifferenti verso il futuro. Come sarà la società tra trent’anni quando mio figlio avrà la mia età? Cosa succederà con l’emergenza climatica? Poi arrivano le domande pratiche: saprò cambiare i pannolini? Come si tiene in braccio un neonato? Saprò allattare? Poi quelle economiche: riuscirò a continuare a lavorare come disegnatrice di fumetti/illustratrice? Guadagnerò abbastanza? Avrò mai una pensione? E infine quelle dell’ego: è finita per sempre la mia carriera? Andrò ancora ad ubriacarmi ai festival di fumetto? Potrò ancora fare delle cazzate nella mia vita?
La gravidanza è stato un lento e sereno addio alla vita passata, da quando il pupo è arrivato, c’è poco tempo per queste domande, è pura azione e ossitocina.

Ha pensato di dare una struttura al lavoro dell’ultimo anno e mezzo? Un blog? Un libro?
Mi piacerebbe fare un libro sulla gravidanza e approfondire ancora diversi aspetti. Non so ancora quanto l’idea sia realistica e se ci sia la possibilità di un altro libro sul tema dopo quello di Sara, che è perfetto e completo. Cercherò di capirlo al più presto, nei ritagli di tempo concessi dal bebè. Intanto vado avanti con i fumetti, le gif sui Instagram, perché mi diverto e mi fa star bene.

Vignette di Alice Socal: Instagram @alice_socal