«Numero di ore trascorse a partire dall’uscita del film in cui non ci hanno fatto causa» dice una scritta in alto a sinistra della pagina web, di fianco alle cifre: 1 settimana 3 giorni 9 ore e 41 minuti. Subito sotto, su campo giallo oro, in verticale, è una mano insanguinata.

Il look è quello classico dello zombie che esce dalla tomba –ma è la mano di Topolino. A partire dal suo debutto, il gennaio scorso, al Sundance Film Festival, Escape from Tomorrow (uscito la settimana scorsa in sala e Vod) è sempre sembrato più un’idea che un film, basata sulla scommessa di «rubare» a uno studio hollywoodiano (e al più aggressivo in fatto di copyrights) non solo una location leggendaria – Disney World, in Florida- ma una fetta stessa d’immaginario e di usarlo in chiave critica.
Questo spirito da bravata studentesca, sottolineato da uno stile che fa molto corto da scuola di cinema, pervadono il lungometraggio d’esordio di Randy Moore, 104 minuti in studiato bianco e nero (la fotografia è di Lucas Lee Graham), parzialmente girati di nascosto nell’enorme parco Disney di Orlando, su temi musicali celebri di Bernard Herrmann e Zbigniew Preisner e pezzi originali di Abel Korzeniowski (l’interessante compositore polacco usato da Tom Ford in A Simple Man e da Madonna in W.E.) per raccontare la giornata d’incubo di una «tipica» famiglia americana tra tazzoni da the rotanti, uccelli esotici che parlano, monorotaie retrofuturibili, topi giganti, castelli incantati e interi paese riprodotti in una stanza. L’immaginario surrealista, e un che di mostruoso, sono impliciti nell’idea stessa di un parco a tema. Anche il più solare.

Per creatività, taglia e ambizione i parchi Disney dilatano ancora di piu’ quella dimensione –veri a propri mondi paralleli a quello reale. La loro «stranezza» è quindi palpabile, anche senza la macchina a mano e il grandangolo insistito di Escape. Più interessante la scelta eliminare il colore. Moore aspira infatti all’iperdisturbante surrealismo indipendente del Lynch di Eraserhead e del canadese Guy Maddin per questo suo tour the force incentrato sul progressivo crollo psicofisico di un padre di famiglia (Roy Abramsohn, che ricorda un po’ l’americano medio alla John Ritter), che scopre di essere stato licenziato ma decide di non dirlo alla famiglia per godersi l’ultimo giorno di vacanza.
Da quell’ istante, per lui, tutto diventa improvvisamente off – gli occhi del suo angelico bambino si trasformano in minacciosi globi neri, le cosce di tacchino in vendita nel parco si rivelano invece essere cosce di emu, dolci proncipesse disneyane seducono untuosi businessmen asiatici e, orchestrata dalla Siemens nella boccia argentata che è simbolo di Epcot, è una terribile epidemia di «febbre gattina» che fa sputare palle di pelo al posto del catarro.

Annaffiata di birra e margheritas a fiumi, condita dalla grida dei bambini, dalle lamentele della moglie e dall’impausibile flirtare di due ragazze francesi, la soggettiva horror di Jim si fa, di minuto in minuto più estrema, intollerabile. Il problema è che, nonostante le atmosfere allucinate e I frequenti accenni a un occulto potere corporate, il tutto sembra riassumersi in una banale crisi di mezz’età. Escape from Tomorrow rimane un’idea, non un film. Con qualche immagine interessante. Sfortunatamente per Moore e i suoi distributori, la Disney non ha abboccato all’amo promozionale della causa per infringement di copyright, rifiutando di rilasciare commenti sull’operazione.