Michele Angioni è primo ufficiale della Aita Mari, la nave della ong basca Salvamento Maritimo che lunedì ha tratto in salvo 44 migranti che si trovavano su un gommone in area Sar maltese. Di origini sarde, da quattro anni lavora con ong spagnole nel salvataggio dei barconi carichi di migranti che fuggono dalla Libia, al punto da parlare ormai un italiano con uno spiccato accento spagnolo. Quando risponde al telefono ha appena finito di soccorrere due migranti che si sono sentiti male. «Siamo intervenuti con l’aiuto del Centro italiano radio medico. Uno di loro lamentava dolori ai polmoni e difficoltà a respirare, ma non presenta nessuno dei sintomi del coronavirus, né febbre né tosse. Probabilmente i suoi dolori sono conseguenza delle botte ricevute in Libia e non è escluso che abbia una costola rotta. L’altro ragazzo invece non mangiava da cinque giorni e adesso vomita in continuazione».

Tra i naufraghi ci sono solo due donne, una ragazza di 21 anni originaria della Costa d’Avorio e incinta al sesto mese, e sua sorella, una bambina di sette anni. E’ sua la voce che chiede aiuto nell’audio diffuso da Alarm Phone, il centralino che aiuta i migranti in difficoltà. Gli altri migranti provengono da Egitto, Sudan, Libia, Ciad, Mali, Bangladesh e Ghana. Il gruppo è partito giovedì della scorsa settimana da Al Khums, a est di Tripoli. «Erano su un gommone grigio neanche tanto grande, di sei, sette metri. Quando li abbiamo trovati avevano il motore guasto e c’era benzina ovunque», spiega Angioni.

Com’è adesso la situazione a bordo?
I migranti sono tranquilli. Alarm Phone ha fatto un lavoro enorme, li ha preparati quindi sapevano che anche quando saremmo arrivati noi non sarebbe stato facile. Ieri (lunedì, ndr) è stata una giornata estenuante. Stavamo tornando in Spagna perché tutte le missioni sono state sospese per via del coronavirus. Quando è arrivata la chiamata di soccorso abbiamo deviato la rotta con l’idea di fare pressioni sulle autorità perché facessero loro l’intervento. Proprio perché stavamo tornando in Spagna a bordo non abbiamo il personale addestrato per i salvataggi, né quello medico. Ci sono solo nove uomini di equipaggio: io che sono l’ufficiale di coperta, il comandante, due macchinisti e i marinai. In più c’è una volontaria. Abbiamo provato a chiamare Malta, perché il gommone si trovava nelle sue zona Sar, poi la Spagna, che è il nostro stato di bandiera. Malta non è voluta intervenire, ci ha detto solo che avrebbe mandato un elicottero per prendere la donna incinta, la bambina e i due malati. Poi il comandante si è reso conto che il gommone stava affondando, ha chiesto a Malta cosa fare e la risposta è stata «Intervenite, ma non vi daremo mai il permesso di sbarco».

Ha detto che non avevate a bordo la crew per i salvataggi. Come siete intervenuti?
Tutto l’equipaggio ha una grande esperienza. Prima di imbarcarmi sulla Aita Mari sono stato con tutte e tre le navi di Open Arms e anche il comandante è un ex di Open Arms. Anche se normalmente a bordo ci occupiamo di altro sappiamo come muoverci. La volontaria è una skipper professionista e ha guidato lei la lancia. Ci siamo organizzati. La cosa difficile adesso è gestire questa situazione, mantenere vivibili le condizioni a bordo per tutti.

Come sono le condizioni del mare?
Il vento si è calmato, ci sono onde di un metro e mezzo e vento a 20 nodi. Diciamo accettabili.

Lunedì c’è stato un momento in cui è sembrato che da Malta fosse arrivato il via libera allo sbarco.
Non è mai arrivato. Ci hanno detto di chiamare un altro centro di coordinamento per ricevere aiuti sanitari, ma sono stati chiari: ci avrebbero dato il sostegno di cui avevamo bisogno ma mai un porto di sbarco. Abbiamo contattato Mrcc Roma che ci ha aiutato con le persone che stanno male ma per ora non abbiamo chiesto un porto sicuro all’Italia perché pensiamo che la responsabilità sia di Malta.

Dove vi trovate?
In questo momento siano a 24 miglia da Linosa, 37 da Lampedusa e 47 da Malta, praticamente in mezzo e facciamo avanti e indietro. Sarebbe necessario evacuare almeno la ragazza incinta, sua sorella, il marito e i due ragazzi che stanno male.

I migranti sono a conoscenza della pandemia che c’è in Europa?
Qualcuno sì, gli altri chi più chi meno. Sanno che il mondo sta attraversando un momento difficile ma bisogna capire che molte di queste persone arrivano da paesi che vivono in costante emergenza sanitaria. Abbiamo dato a tutti le mascherine e loro rispettano l’ordine di indossarle. Non sembrano preoccupati. Semmai un’altra cosa…

Cosa?
Faccio questo lavoro dal 2016 e quattro anni fa le persone che venivano in Europa avevano gli occhi che brillavano per la contentezza. Oggi non è più così, qualcosa è cambiato anche per loro. Sanno che l’Europa non li vuole, ma nonostante questo vengono perché per loro si tratta di un investimento per provare a migliorare la loro vita. Ma l’idea di Europa come il paradiso è finita.

Cosa pensate di fare?
La nostra preoccupazione è trovare un porto sicuro per queste persone, a Malta, in Italia o in Spagna. Nel frattempo viviamo giorno per giorno.