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Malinconia degli esuli russi al varco di una scelta politica

Malinconia degli esuli russi al varco di una scelta politicaChaim Soutine, Fish, Peppers, Onions, 1919 c.ca

Romanzi israeliani Pubblicato nel 1919 come prima tessera di una trilogia , «In principio, confusione e paura» mette in scena uomini fuggiti dalla rivoluzione del 1905 per fondare, a Gerusalemme, un giornale sionista-socialista e una associazione di lavoratori

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 11 novembre 2018

Aharon Reuveni è autore poco noto in Israele, per nulla al di fuori. Una vita avventurosa, costellata di transiti e partenze, dalla deportazione in Siberia al Giappone, attraverso l’Estremo Oriente, le terre ottomane e l’Oceano Pacifico, fino all’approdo in Palestina, impiegato presso un giornale del sionismo socialista. Nazionalista ma non dogmatico, spesso eterodosso, Reuveni sperimenta, sin dagli anni della prima guerra mondiale, molteplici esperienze di scrittura, dallo yiddish all’ebraico, dai romanzi alla poesia, dagli articoli di giornale ai saggi letterari e di biblistica. Tolto un breve racconto in miscellanea già apparso in traduzione, la sua ricezione italiana prende ora avvio con In principio, confusione e paura, pubblicato nel 1919 come prima tessera di una trilogia romanzesca incardinata su Gerusalemme, oggi disponibile nell’accurata versione dall’ebraico di Luca Colombo, anticipata da un denso saggio di Elena Loewenthal che ne illumina contenuti e retroterra culturale (Einaudi, pp. 196, euro 18,50).

Gerusalemme, settembre 1914, vigilia della festa delle Capanne: lo spazio inaugurale del racconto è costituito dalla redazione di un giornale sionista-socialista e dall’annessa tipografia. Di fianco la stanza del contabile, risme di carta da stampa e buste di spedizione sparse qua e là. I redattori – intenti a correggere le bozze del primo numero dell’anno nuovo, in ritardo sull’uscita di almeno due settimane – rivelano da subito opinioni contrapposte e le linee, drasticamente espresse, di pensieri divergenti. Cresciuti ai tempi della guerra russo-giapponese e del movimento ebraico-nazionale nell’impero degli zar, accomunati da un passato rivoluzionario e da un presente ancora entusiasta per l’idea sionista, i redattori della «Strada», questo il nome del giornale, sono fuggiti dalla Russia dieci anni prima, dopo il fallimento della rivoluzione del 1905, per fondare, nella terra dei padri, un foglio politico social-sionista, insieme a un’associazione di lavoratori, e continuare, come prima a Kiev e Vilnius, ad agitare lo spazio pubblico: «non era cambiato nulla in loro tranne il fatto che i tessuti molli della gioventù si erano rivestiti di pelle dura».

La grande guerra, il fronte nemico
Su questo comune terreno ideologico sono però visibili diverse screziature e modulazioni dissonanti: ci sono Ben Mattatiahu, Haim Ram e Ghivoni Bergelman, uniti da un pensiero monocorde e squadrato, saldamente ancorati all’astrazione politica del collettivismo, poco inclini alla corda dell’emotività. C’è Ghedalia Baranciuk, scrittore in cerca di successo e di ispirazione, una mente beffarda e cinica, sempre rivolta alle figure della propria interiorità, da cui nessuna urgenza quotidiana, neppure la più acuta e problematica, lo distoglie. C’è Solodochin al quale pesano, più che agli altri, le impolverate strozzature retoriche della scrittura di stampo proletario: è forse l’ingegno più fine, alla continua ricerca di affrancamento nei territori, liberi e incondizionati, della letteratura mondiale. Il suo è un pensiero lucidamente difforme, combinato a una sensibilità impulsiva e vibratile, dove le emergenze del presente fanno facilmente presa. Infine c’è Aharon Tziprovitch, il contabile.

La voce di Reuveni è profilata e netta, mostra la sobria cadenza, la misura e il passo elegante dei classici, accordati a una notevole perizia nella restituzione, minuta e sismografica, di un’atmosfera emergente per gradi, al tocco delicato di un racconto che disegna un quadro storico senza mai scivolare nel didascalico. Già all’attacco della vicenda, i protagonisti discutono della grande guerra che, da circa un mese, coinvolge le nazioni del mondo. All’intessersi delle discussioni si delineano, come il negativo di un’immagine, coordinate storiche che si fanno via via più precise: la Palestina è ancora provincia del vecchio e indolente Impero ottomano che entrerà nel conflitto a novembre, a fianco di Germania e Austria. L’estendersi della guerra nelle terre del sultano, con la Russia nello schieramento opposto, aprirà una faglia nel progetto sionista, che dovrà fare i conti con la pluralità delle sue anime, storicamente e territorialmente differenti.

Gli esuli russi, che così grande impulso avevano dato all’elaborazione teorica e al disegno politico del sionismo, e in generale l’insediamento russo-ebraico in Palestina, si troveranno d’improvviso, loro malgrado, sul fronte nemico. Sarà dunque, per i protagonisti del racconto, il momento delle scelte, delle radicali indecisioni trasformate in lunghi discorsi e in dialettica antitetica tra prospettive diverse, nel continuo, tortuoso, ondeggiare tra i due corni di un dilemma: diventare cittadini dell’Impero ottomano, con il rischio del reclutamento, o scivolare nella clandestinità, con il pericolo, uguale e contrario, della cattura, dei lavori forzati, della prigione e dell’espatrio coatto. O ancora, a monte delle due opzioni, lasciare la Palestina per l’Egitto e da lì, chissà, passare in America.

Nel romanzo di Reuveni, buona parte dello spazio narrativo si gioca intorno a questo crocevia delle esistenze, nell’inesausto discutere tra i redattori, sempre meno obiettivi e sempre più politicizzati, e nel confronto tra i fautori di un’ottomanizzazione immediata e gli attendisti, prudenti nel consegnare i passaporti russi e fiduciosi, con visione politica piuttosto chiara, in una futura occupazione britannica della Palestina. Un accavallarsi di voci dietro cui è possibile distinguere i volti più noti della scena sionista, da David Ben Gurion a Yosef Chaim Brenner allo stesso Reuveni e al fratello Itzhak Ben Zvi, che quarant’anni dopo sarà il secondo presidente dello Stato d’Israele. Così come non è difficile riconoscere nella redazione della «Strada» un riflesso della prima esperienza giornalistica dell’autore in Palestina.

Una figura dell’inettitudine
In principio, confusione e paura è però soprattutto un’opera di alto rango letterario, con un sistema dei personaggi lavorato nel dettaglio e un accordo, perfettamente udibile in sottofondo, con le grandi figure del romanzo otto-novecentesco. A cominciare dal contabile Tziprovitch, figura di invenzione, forse una delle più riuscite variazioni sul tema dell’inettitudine. Di ingegno adamantino e sottilmente analitico ma altrettanto inadatto alla vita, Tziprovitch è irresoluto, immaturo nei sentimenti, incapace di ogni decisione. In disparte dalla storia, fiaccato nel fisico da quella malaria che è il correlativo oggettivo del suo stato spirituale, il contabile soffoca ogni attitudine, blocca ogni espressione sul nascere, devia il corso di ogni slancio vitale, entrando di diritto nella schiera dei personaggi dalla vita irrealizzata, dall’Emilio Brentani di Senilità a Gregor Samsa fino al romanzo russo cui Reuveni è spesso debitore, fra Oblomov, l’uomo superfluo di Turgenev a l’Eroe del nostro tempo di Lermontov, come a segnare il tragitto dell’inadeguatezza ad esistere. Per non parlare dei molti insicuri di cui spesso, negli anni a venire, si affollerà la letteratura israeliana.

Angosciato dalle relazioni sentimentali, e dalle loro pretese, Tziprovitch produce, per moto conseguente, l’allontanamento di Menia, figura della determinazione e della volontà di vita, in una dimensione femminile dell’azione e della risolutezza che spesso, nel romanzo, fa da marcato controcanto a un universo maschile fiacco ed evanescente e all’esausta malinconia che lo compendia. Una malinconia che, forse, è la cifra più evidente dell’intero romanzo.

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