Le bombe americane presto torneranno a cadere sull’Iraq, se Washington accoglierà la richiesta ufficiale comunicata ieri dal ministro degli esteri Hoshyar Zebari di compiere raid aerei contro i miliziani qaedisti. E’ la conferma della grande fatica che le forze governative irachene fanno a contenere l’avanzata verso Baghdad dei combattenti dello Stato Islamico in Iraq e nel Levante e dei gruppi sunniti alleati, a cominciare dagli ex baathisti alla ricerca di una clamorosa rivincita 11 anni dopo l’invasione anglo americana del paese e l’impiccagione nel 2006 di Saddam Hussein. Un quadro reale e ben diverso da quello descritto ieri in tv dal premier sciita Nour al Maliki che ha parlato di «rovescio, non è una sconfitta». Il primo ministro ha puntato l’indice contro quelle potenze regionali che appoggiano da dietro le quinte l’avanzata dei qaedisti. La perdita di Mosul e di altre città, ha spiegato, è «parte di un complotto…affronteremo il terrorismo e neutralizzeremo quel complotto». La rottura tra l’Iraq con le petromonarchie del Golfo ormai è totale. Dopo le pesanti accuse rivolte a Maliki da Arabia saudita e Qatar, ieri gli Emirati hanno richiamato l’ambasciatore a Baghdad per “consultazioni” e hanno attaccato la politica “settaria” del primo ministro iracheno che avrebbe danneggiato la minoranza sunnita.

In attesa delle bombe americane e delle mosse dell’Iran protettore di al Maliki – Tehran ha fatto sapere attraverso Mohammad Nahavandian, il capo di gabinetto del presidente Rohani che collaborerà con gli Usa contro i qaedisti solo se le trattative con l’Occidente sul programma nucleare iraniano si chiuderanno con un accordo – sul campo di battaglia lo Stato islamico In Iraq e nel Levante continua a mantenere l’iniziativa. Mentre preparano l’offensiva contro Baghdad – da un punto di vista operativo sono già ad Abu Ghreib, a pochi km dalla capitale – i qaedisti consolidano il potere a Mosul, Baquba e in altri centri abitati sotto il loro controllo dove in non poche occasioni sono stati acclamati come “liberatori” dagli abitanti di fede sunnita. E puntano a garantire le risorse necessarie per il mantenimento del futuro “califfato” che intendono costituire. Ieri si sono impadroniti di una parte delle raffinerie di petrolio di Baiji, nella regione di Salahaddin. Gli scontri in serata erano ancora in corso ma, come è accaduto ovunque nei giorni scorsi, le forze di sicurezza governative si sono ritirate dopo una breve resistenza. Ormai solo le milizie sciite meglio addestrate sembrano in grado di contrastare efficacemente i qaedisti. In queste ore starebbero rientrando in Iraq i 20-30mila volontari, o una parte di essi, che nell’ultimo anno e mezzo hanno combattuto (assieme ai libanesi di Hezbollah) in sostegno dell’esercito governativo siriano contro i ribelli anti Bashar Assad. Miliziani sciiti che, stando a quanto si apprende, avranno il difficile compito di riprendere prima di tutto il controllo della provincia occidentale dell’Anbar. Allo scopo di interrompere la continuità territoriale, tra Siria e Iraq, del nascente “Califfato” sunnita, e per impedire che i qaedisti riescano a tenere il controllo allo stesso momento del petrolio della Siria orientale e di quello dell’aree dell’Iraq sotto il loro controllo.

Mettere le mani sul greggio è stato sin da subito uno degli obiettivi dei qaedisti. In Siria negli ultimi due anni hanno combattuto prima contro i curdi e poi contro i loro cugini di al Nusra per tenere il controllo dei giacimenti orientali, nella zona di Deir e Zour. L’aviazione siriana compie frequenti raid contro le lunghe colonne di autocisterne che trasportano il greggio rubato che poi viene messo in vendita nelle campagne di Deir e Zour. Secondo le informazioni di governo e dell’opposizione siriana, circa 60.000 barili di petrolio sono prodotti ogni giorno in quella parte del paese: 10.000 sono venduti illegalmente sul mercato interno, il resto viene contrabbandato attraverso la Turchia. Il prezzo di un barile di petrolio rubato è di 10 dollari per un totale di 500 mila dollari al giorno, una cifra che spinge tanti camionisti e criminali comuni a rischiare la vita pur di partecipare all’affare. Una rete di connivenze lungo le linee di confine permette poi la vendita a 30 dollari al barile in Turchia dove il petrolio siriano va a ruba visto che il prezzo internazionale è superiore ai 100 dollari.

Tenendo conto che le raffinerie in Siria non funzionano (tranne quella di Banias), qaedisti dello Stato probabilmente pensano di poter far arrivare una parte del petrolio siriano agli impianti di Baiji. Le perdite statali siriane nel settore del petrolio sono pari a 11,5 miliardi dollari, mentre quelle delle imprese straniere che investono in Siria si è attestato a 6,4 miliardi dollari. Tra non molto, se non verranno riconquistati i territori perduti, anche l’Iraq farà conti con la perdita di ingenti risorse derivanti dal petrolio e che, grazie al mercato nero, finiranno nelle casse dello Stato islamico in Iraq e Siria. Intanto è già cominciata la fuga. Le compagnie petrolifere internazionali si preparano ad evacuare dall’Iraq il loro personale impiegato nelle regioni centrali del paese.