Maliki non si arrende. Il silenzio dei giorni appena trascorsi, dopo la nomina del nuovo premier Al Abadi che estromette il leader sciita dalla guida del governo, è stato rotto ieri: Nouri al-Maliki ha annunciato che non si dimetterà. Resterà in attesa della sentenza della corte federale sul ricorso che chiede l’annullamento della nomina del rivale. «Una violazione della costituzione – ha ribadito Maliki – Non ha alcun valore. Confermo che il governo andrà avanti e non ci sarà una sostituzione senza una decisione della corte federale».

E mentre Baghdad risuona del boato di due autobomba che ieri hanno ucciso 10 persone, con una mano Maliki calma gli animi invitando le forze armate a non interferire, mentre con l’altra lancia minacce: la nomina di Al Abadi, ha detto ieri, «aprirà le porte dell’inferno». Vero è che Maliki è ancora a capo delle forze armate e ne controlla i vertici, tutti uomini a lui fedeli. Ma tale fedeltà non è a senso unico: la milizia sciita Asaib Ahl al-Haq, finanziata generosamente dall’Iran, ha già dichiarato il proprio sostegno ad Al-Abadi che nelle prime consultazioni si è già accaparrato 127 dei 165 seggi necessari alla maggioranza parlamentare. Tutti seggi sciiti, ma giungono già dagli scranni curdi e sunniti le prime dichiarazioni di appoggio al nuovo esecutivo.

E se Maliki non molla l’osso, l’ex premier appare sempre più isolato: la comunità internazionale lo ha abbandonato, Washington ha impiegato un attimo a scaricarlo, mentre Teheran da tempo premeva – forte del sostegno dei leader religiosi sciiti iracheni e iraniani – per una sua sostituzione. Lo stesso intervento Usa, aveva detto Obama nei giorni scorsi, sarebbe dipeso dalla formazione di un governo di unità nazionale guidato da una figura più coesiva.

Il primo segno è arrivato ieri: la Casa Bianca ha inviato altri 130 consiglieri militari, in aggiunta ai 775 già presenti. Il loro compito – sottolinea il Pentagono – sarà collaborare con l’esercito iracheno per affrontare la crisi umanitaria a nord. Ovvero, ha precisato il segretario di Stato Kerry, l’amministrazione Usa valuta la possibilità di lanciare un’operazione di salvataggio dei profughi. Marines e unità speciali sono già atterrati nella capitale curda, Irbil, ma il Dipartimento di Stato ci tiene a sottolineare che nessun militare sarà impiegato in operazioni di combattimento.

Non cessa intanto la fuga della comunità yazidi: decine di migliaia i profughi sono ancora intrappolati sul monte Sinjar, mentre oltre 100mila hanno immediato bisogno di aiuti umanitari dopo aver attraversato il confine con la regione autonoma del Kurdistan. Una fuga dettata dalle violenze dei jihadisti dell’Isil: un tentato genocidio, lo hanno descritto in molti, che ha terrorizzato la piccola comunità che oggi chiede di essere portata via dall’Iraq. «Vogliono andarsene – ha raccontato la giornalista di Al Jazeera, Jane Arraf, dal campo Bad-git Kandala, al confine con la Siria – Dicono che non c’è alcuna possibilità di sentirsi sicuri, mai più».

E mentre il mondo assiste al dramma delle minoranze target dell’avanzata dell’Isil, i leader mondiali infilano le mani nel caos iracheno. Alla consegna di armi ai peshmerga curdi avviata dagli Usa la scorsa settimana, hanno risposto anche Gran Bretagna e Francia. Londra si occuperà del trasporto di equipaggiamento militare donato dalla Giordania al Kurdistan e invierà elicotteri Chinook per l’operazione di salvataggio degli yazidi, mentre Parigi ha annunciato ieri l’invio di armi ai peshmerga a partire dalle prossime ore. La Germania sta valutando la possibilità di inviare equipaggiamento non letale all’esercito iracheno. A monte l’ennesimo fallimento dell’Unione Europea, priva di una politica estera comune: i 28 Stati membri non sono riusciti a stabilire una linea di condotta unica limitandosi a garantire ad ogni paese la libertà di intervenire in autonomia.

Forte anche il sostegno dell’Iran, che gode di un’estrema influenza nelle faccende irachene. Dietro la nomina di Al Abadi c’è il benestare sia di Teheran che di Washington: l’Iran punta ad un governo inclusivo che ricacci indietro la minaccia jihadista e la longa manus saudita, che negli anni passati ha indirettamente finanziato i gruppi estremisti sunniti anti-Assad in Siria e Iraq; gli Stati Uniti non possono permettersi la divisione di un paese occupato per otto anni e ora in preda a settarismi interni così forti da limitare l’egemonia statunitense su una delle aree strategiche della regione. Settarismi frutto delle dirette politiche Usa contro cui ha puntato il dito anche l’ex segretario di Stato Hillary Clinton che domenica, in un’intervista, ha sollevato il dubbio che il sostegno di Obama ai ribelli siriani abbia favorito la crescita dei movimenti islamisti estremisti.