È ricorrendo alla nozione di «società dell’apparenza» che Fodié Tandjigora, sociologo presso l’Università di Bamako, introduce la nostra conversazione a margine dell’evento culturale dell’anno, la Rentrée Littéraire du Mali, in un paese sahelo-sahariano di solito all’onore delle cronache con riferimento esclusivo al fenomeno jihadista.

L’AMBIZIONE di salvaguardare le apparenze, di tutelare l’onore personale e famigliare, evitando quanto potrebbe svilire un membro del proprio gruppo di fronte agli altri, non corrisponde in tale realtà a una misura di semplice prudenza, ma costituisce la conseguenza di pressioni esercitate dall’entourage sulle nuove generazioni lungo tutto il percorso di crescita.

Il concetto è importante anche quale corollario di un altro dato caratteristico dell’educazione impartita in Mali: il divieto posto ai giovani di affrontare pubblicamente argomenti delicati e l’invito a celare, sin dall’adolescenza, aspetti riguardanti il loro modo di essere, a rischio di ostracismo sociale.

Il termine «gundo», segreto, in lingua bamanan, riassume i risvolti di tale mentalità. Con l’espressione gundo, infatti, non s’intende solo ciò che deve rimanere nascosto, ma qualcosa di risaputo di cui, però, non si può parlare apertamente.

È DUNQUE UN APPELLO alla rimozione a qualificare parte del processo formativo, come ha denunciato una studentessa, F., nel corso di un dibattito dedicato all’analisi degli strumenti di dominio e di esclusione oggi prevalenti. L’incontro si è tenuto sotto l’egida dell’Università di scienze giuridiche e politiche (USJP) in occasione della Rentrée Littéraire. F. è intervenuta menzionando la difficoltà, per i figli, di dialogare in famiglia e, in generale, per i ragazzi di esprimersi senza censure di fronte agli adulti, sfiorando argomenti che stanno loro a cuore (la sessualità, il peso delle tradizioni, la religione come strumento di costrizione e persino di violenza).

Ha così affrontato, di petto, la questione del «non-detto» sociale.

AL PROPOSITO, NEL DELINEARE il profilo di un tema spinoso quale l’omosessualità maschile a Bamako (Revue internationale d’anthropologie et sciences humaines n. 59), lo studioso Christophe Broqua ha rilevato come il comportamento delle persone, al di là delle differenze di ceto e d’istruzione, sembri guidato, in situazioni qualificabili come liminari rispetto ai dogmi accreditati dai più, dalla volontà di «confondere le piste», di gettare fumo negli occhi.

Di fronte a orientamenti o a scelte intime condannate dalla morale, specie in ambito confessionale (il Mali è uno stato laico, ma l’islam sunnita vi domina storicamente), la menzogna finisce, insomma, per rappresentare un’opzione ineludibile, quasi una risorsa salvifica.

IN UN ARTICOLO apparso nel 2018 sulla rivista Les Temps Modernes, l’antropologo Jean-Loup Amselle da parte sua ha spiegato che, in Mali, l’omosessualità viene ancora assimilata a un «oltraggio al pudore, a un crimine». Ha poi aggiunto come – attraverso posizioni del genere – «non sia tanto l’orientamento sessuale a essere preso di mira, quanto la pubblicità data alla pratica», almeno da qualche anno, sotto l’influenza di un pensiero moderno di stampo occidentale, «che contraddice il principio del segreto (gundo) sul quale riposa la vita collettiva» in loco.

Un punto nodale emerge qui: l’idea di modernità veicolata socialmente, in contrapposizione ai costumi ancestrali. Come ci ha precisato Mohamed Diarra, noto autore di romanzi polizieschi in cui denuncia la corruzione ed entra nei meandri di una comunità composita, combattuta fra passato e presente, in Mali, «tutto ciò che non è autoctono rinvia all’idea di modernità». Questa coincide dunque, superficialmente, con il mondo esterno ma, pure, con un pensiero e, per l’esattezza, con degli strumenti tecnologici, recepiti in maniera passiva, dei quali oggigiorno non si può fare a meno, sebbene appaiano quali veicoli di sopraffazione culturale o di asservimento a modelli che vorrebbero imporsi spazzando via il patrimonio nativo più autentico.

Eppure, tale opinione che difendono nelle loro prediche i capi religiosi wahabiti, anche a fini politici, per mantenere la pressione sul governo filo-francese del presidente Ibrahim Boubacar Keita, non è unanimemente condivisa dai giovani, specie in ambito urbano.

LO TESTIMONIA HAWA, studentessa in psicologia, che abbiamo intervistato presso l’associazione umanista «Silo», nel quartiere di Kalaban Coura. Per Hawa, la modernità, che ha conosciuto attraverso il sistema scolastico e poi universitario di matrice francofona, non è fonte di timori, bensì di apertura, di opportunità per prepararsi a una professione, da svolgere in futuro, anche quando si sposerà, senza che ciò le ponga il dilemma di abbandonare o rinnegare i valori propri alla sua cultura.

Hanno posizioni analoghe due giovanissimi animatori, Ali e Mamadou, incrociati al centro «Silo», che ci hanno descritto con entusiasmo il lavoro teatrale portato avanti coi bambini, per apprendere loro a manifestare, senza timidezze, il proprio pensiero.

Secondo Ali e Mamadou, gli ambiti della modernità e della tradizione vanno coltivati insieme, non contrapposti e, per ottenere tale risultato, la parola che si libera è cruciale. Lo dimostra la pièce che propongono da qualche tempo ai loro piccoli spettatori, invitati, alla fine, a intervenire per manifestare la loro opinione e risolvere, così, la diatriba che gli attori hanno messo in scena.

LA RAPPRESENTAZIONE s’intitola Il n’y a pas de petite querelle! (Non esistono litigi di poco conto) ed è volta a giocare, con abilità, sui conflitti che emergono nel quotidiano e che possono trovare una soluzione attraverso il dialogo rispettoso delle reciproche differenze, ma capace altresì di non trincerarsi dietro pregiudizi immutabili.

In conclusione, come attestano le dichiarazioni raccolte presso giovani che studiano o sono impegnati nel sociale, il modello del «non-detto» si rivela ormai obsoleto: le nuove generazioni intendono invece levare la voce per farsi ascoltare e non rimanere prigioniere, in casa, in patria, di canoni troppo rigidi.