Nato nel 1968 in un piccolo centro presso Timbuctu, Samba Touré è l’erede più credibile di quel gigante della cultura africana che è stato Ali Farka Touré, uno capace di stregare il mondo con una sintesi dinamica, plurale e poliglotta delle traiettorie musicali di cui abbonda il Mali. E visto che del paese è stato un discreto collante civile, viene naturale chiedersi come avrebbe reagito – lui che è morto nel 2006, in pieno rinascimento – allo sfacelo odierno. «Di certo avrebbe condiviso con noi rabbia e sofferenze – ipotizza l’”allievo” -. È stato un simbolo dell’unità nazionale, con un repertorio che spaziava dal sud al nord. L’idea del Mali diviso in due lo avrebbe fatto infuriare, e avrebbe avuto uno choc nel vedere la sua gente stuprata e assassinata».

 

«Il Mali è pieno di musicisti, non è pensabile che la musica possa fermarsi per sempre»

 

 

 

 

[/do]Nessuno poteva metterlo in conto, finché il Mali faceva parlare di sé per i festival mondialisti in pieno deserto, per il messaggio di bellezza che la sua cultura sprigionava, i principeschi arpeggi di kora e le voci imperiose di tante vedette femminili, la cosmogonia dei Dogon e la “rivoluzione dei garofani” locale che liquidava la dittatura senza colpo ferire, mentre il sound “nordico” di Ali Farka Touré suggeriva un’origine più che plausibile per il blues. «Quella storia lì non è finita – assicura Samba – e non c’è rinascita per qualcosa che non è mai morto. Il 2012 è stato terribile per gli artisti e anche il 2013 mi pare che non scherzi. Ma la stessa cosa si può dire di tutti i settori professionali del paese: chi non ha sofferto la crisi? Ora non possiamo che sperare in giorni migliori. Al momento lo stato d’emergenza impedisce agli artisti di esprimersi e affligge le loro esistenze, ma un giorno tutto ricomincerà come prima. Il Mali è pieno di musicisti, non è pensabile che la musica possa fermarsi per sempre».

Vallo a spiegare alle milizie islamiste che hanno imposto la sharia nelle principali città del nord e al catalogo di ordinarie efferatezze – mani mozzate a ladri veri e presunti, donne segregate e fustigate – hanno aggiunto un pizzico di inaudita stupidità politica, chiudendo i bar e provando appunto a vietare la musica. In un posto così, dove la musica non si esegue e non si ascolta, ma si respira. Con una tigna tipicamente wahabita che nulla ha a che vedere con le tradizioni religiose di queste regioni, islamizzate a macchia di leopardo a cominciare dall’XI secolo. «Ci sono diversi modi di praticare la fede e in Mali non abbiamo mai avuto problemi di convivenza. Il Wahabismo non è una novità, ma parliamo di una minoranza che non può tenere in ostaggio un paese da sempre aperto e tollerante. Tutti questi gruppi armati, Aqmi, Ansar Dine, il Mujao, dicono di essere musulmani ma in realtà sono solo trafficanti, stupratori, assassini, terroristi organizzati. L’Islam non tollera simili violenze».

Sulla guerra di Parigi ai jihadisti Touré la pensa in maniera radicalmente diversa rispetto al manifesto, o rispetto a un’esponente della società civile maliana come l’altermondialista ed ex ministro Aminata Traoré. «L’intervento era necessario – dice -, l’esercito maliano non era in grado di agire da solo, i paesi dell’area non erano pronti e c’era un’emergenza. Chi può dire cosa sarebbe oggi il Mali se non ci fosse stato l’intervento francese?». Su questo la comunità artistica maliana è quasi unanime. L’idea di dover rinunciare all’ossigeno non è piaciuta a nessuno e in molti si sono mobilitati. Collettivamente, con un Voices United organizzato dall’astro nascente Fatoumata Diawara, o singolarmente, come Bassekou Kouyate che macina la sua rabbia nell’album Jama ko. Dischi comprensibilmente indignati per la situazione creatasi al nord, ma in qualche modo nati vecchi, perché mentre “andavano in stampa” lo scenario mutava drasticamente.

Anche Samba Touré si è chiuso in studio durante la crisi e quando ne è uscito a Timbuctu sventolava già la bandiera francese. Poi i tempi della discografia hanno fatto il resto. Ma almeno il disco pubblicato ora da Glitterbeat ha un titolo buono per tutte le stagioni, Albala («pericolo», in lingua songhai). «Il pericolo permane – dice Samba -, nulla è finito e tutto può ancora accadere. I gruppi armati sono stati solo dispersi nei paesi vicini, le frontiere non sono sicure e l’area è immensa. Ci sono ancora milizie armate sul terreno e l’Mnla rifiuta di deporre le armi. Ma il pericolo viene anche da incomprensione, razzismo, settarismo…».

Rischi ulteriori, dopo la scelta muscolare di Hollande, il musicista proprio non ne vede. Anzi, trova normale che ai 333 santi per cui va famosa la sua Timbuctù se ne sia aggiunto uno, il presidente francese appunto. «La città gli ha mostrato la sua riconoscenza con un’accoglienza calorosa – dice Touré -. Sono state rivolte molte critiche alla Francia, ma qual era l’alternativa? Di quante uccisioni, di quanti stupri c’era bisogno per giustificare questa guerra? Per me solo chi ha subito l’occupazione islamista può giudicare, il resto sono chiacchiere. Non bisogna poi dimenticare che i soldati francesi sono arrivati su precisa richiesta del Mali. Questa non è una guerra per destabilizzare uno stato, ma un modo per salvare un paese che ha chiesto aiuto». In Fondora, una delle canzoni più politiche del disco, Samba Touré invita «ladri», «infedeli», «saccheggiatori» e «stupratori» a sloggiare. «I terroristi stranieri devono tornarsene a casa – aggiunge -, altrimenti nessuno sviluppo sarà possibile».

Viene voglia di obiettare che proprio il mancato sviluppo ha prodotto questo, che a lanciare l’sos è stato un governo screditato e post-golpista, che Hollande nulla ha fatto per negare che la guerra serviva a preservare le forniture di uranio alle centrali nucleari francesi. Ma Touré guarda già altrove e la musica scorre incisiva, con i dolci rumorismi di Hugo Race (l’ospite più “esotico” di Albala) sommati alle risonanze impure dello ngoni e alla voce arcaica del violino soku. «Non so cosa ne avrebbe detto Ali, ma certo mi avrebbe incoraggiato e consigliato, come ha sempre fatto. Il mio stile – spiega – è basato sullo stile ritmico songhai, ma i testi sono cantati nelle diverse lingue nazionali perché questa è la nostra ricchezza. Mi sento maliano prima che songhai e credo che le nostre diversità siano una risorsa che poche migliaia di uomini armati non possono distruggere. Continuo ad avere amici Fulani, Dogon, Bambara. Tuareg, nel nord siamo tutti cresciuti insieme. Il mio unico nemico è chiunque sollevi un’arma contro di me, l’appartenenza etnica non mi interessa».