È bello poter tornar a parlare con Malgorzata Szumowska dopo la sua partecipazione come testa di serie l’anno scorso al festival di Cinema e donne di Firenze con Corpi (2015). Svezzata dietro la macchina da presa alla fine degli anni novanta da Wojciech Has uno dei nomi più visionari del cinema polacco, Szumowska si è imposta nella scuola di cinema in cui avevano studiato anche Kieslowski e Skolimowski. Allora il mestiere di cineasta era roba da maschi a Varsavia e dintorni. Agnieszka Holland è rimasta per molto tempo un’eccezione alla regola prima che Szumowska venisse a reclamare la sua parte. Il suo percorso artistico è stato sugellato da diversi riconoscimenti alla Berlinale prima di approdare l’anno scorso al Lido con Non ci sarà mai più la neve (2020).

Che cosa ha imparato lavorando sotto la tutela di un maestro come Wojciech Has?

È stato il mio tutore nella regia del mio primo film Szczesliwy czlowiek, realizzato durante il periodo in cui ero ancora una studentessa alla Scuola di cinema di Lódz. Allora l’universo degli aspiranti registi era dominato dai maschi. Sotto la sua supervisione artistica sono riuscita a conoscere meglio la sua personalità ruvida. Era sempre molto severo nella valutazione del mio lavoro. Con lui ho capito che talento e sensibilità artistica da soli non bastano se non si è forti e non si lavora sodo. Il mestiere di regista è davvero difficile e bisogna battagliare con molte persone. È stato un aspetto importante dal momento in cui i miei film hanno cominciato a funzionare nel circuito festivaliero. E grazie a lui che ho compreso l’importanza di sapersi prendere una pausa per concentrarsi su ciò che conta davvero bloccando così il chiacchiericcio della mente.

Le sceneggiature dei suoi ultimi lavori ruotano intorno a personaggi che svolgono il mestiere di terapisti come la medium Anna in «Corpi» e il massaggiatore Zhenia in «Non ci sarà mai più la neve. Lei crede nel potere curativo del cinema?

L’arte ha sicuramente una valenza terapeutica. Questa proprietà la ritroviamo spesso nel cinema non commerciale che dà al pubblico la possibilità di vivere una catarsi. Il medium cinematografico offre consolazione e allo spettatore viene consentito di sentirsi parte di un disegno più grande. Questo non finisce necessariamente per purificare la mente ma fa sentire noi e le nostre preoccupazioni infinitamente più piccoli. Su un altro piano, posso dire che i miei lavori nascono da un’esigenza spirituale che forse deriva anche dalla mia educazione a Cracovia. Sono stata esposta al cattolicesimo un po’ più liberale dell’ordine dei domenicani. Tutto questo è avvenuto prima che mi allontanassi dalla religione, una conseguenza della mia ricerca personale come soggetto pensante. Ritengo comunque che la spiritualità possa approdare sul grande schermo senza dover necessariamente rinunciare ad un certo umorismo.

Zhenia è ucraino e viene apprezzato in Polonia da una «gated community» è un supereroe in borghese dotato di poteri curativi. Il copione sembra quasi suggerire che gli stranieri devono avere un talento fuori dal comune per essere accettati da voi

In generale penso che i polacchi non siano ancora molto aperti nei confronti degli immigrati. E forse mai lo saremo. Da un certo punto di vista siamo una nazione monolitica e soddisfatta di sé. Ci crogioliamo nell’idea di fare tutti parte dello stesso blocco. La Polonia è felice di essere dove si trova in questo momento. Ecco spiegata una della possibili cause dell’intolleranza che si vede dalle nostre parti. È un tema che ho provato ad affrontare nei miei film. Gli ucraini vengono percepiti in Polonia allo stesso modo in cui lo sono i polacchi che vivono nel Regno Unito. Non si tratta di arroganza. Più semplicemente non abbiamo alcuna ragione materiale per abbracciare l’alterità culturale. Tutto questo deriva dalla crescente prosperità che il nostro paese sta attraversando negli ultimi decenni. E questo a dispetto del fatto che molti europei occidentali continuino a equiparare la Polonia al Kazakhstan immaginario mostrato in Borat.

Cosa ci può raccontare della sua esperienza di produttrice per «Antichrist» (2009) di Lars Von Trier?

Si è trattato di una coproduzione polacca in cui tutto è filato liscio. Ci siamo occupati degli effetti speciali durante la postproduzione. Da regista mi sono prodotta anche la maggioranza dei miei lavori. Questo vale anche per Infinite Storm, un film con Naomi Watts in cui ho lavorato anche come produttrice esecutiva (il film non è ancora uscito ndr). Il produttore è una figura relativamente nuova nella cinematografia polacca. Quando ho mosso i miei primi passi nell’industria, il concetto di coproduzione era assente dal nostro cinema. L’unica eccezione era rappresenta dagli ultimi film diretti da Kieslowski. Allora ci stavamo lasciando alle spalle il sistema dei «zespól», gestito attraverso unità di produzione statali. Come molti altri cineasti, mi sono ritrovata in un contesto in cui imparare a produrre cinema in proprio era diventata una necessità.

Come si è ritrovata a dirigere nel 2019 «The Other Lamb», un film horror scritto da Catherine Smyth-McMullen?

Sono entrata alla United Talent Agency (Uta) nell’anno in cui ho realizzato Un’altra vita – Mug (2018). Dopo aver accettato di essere rappresenta da loro si sono aperte nuove porte per fare cinema all’estero. Da qualche anno a questa parte le registe sono molto richieste dall’industria cinematografica mondiale. In quel periodo leggevo una trentina di sceneggiature al giorno nella speranza di trovare qualcosa che facesse per me. The Other Lamb è il primo frutto della mia collaborazione con la Uta. La realizzazione di questo progetto è stata estremamente rapida. Ho rivisto la sceneggiatura, apportato delle correzioni e poi ci siamo ritrovati sul set in un batter d’occhio. E un tipo di esperienza che mi mancava dietro la macchina da presa. Mi sento a mio agio sia con il cinema d’essai che con quello di genere quando si tratta di sceneggiature non scritte da me. Sto imparando molto da questo modo di fare cinema. Al momento sono pochissimi i registi provenienti dall’Europa dell’Est ad essere attivi nel mercato americano.

Perché secondo lei il cinema dell’orrore non è un genere particolarmente popolare in Polonia?

Durante il comunismo il cinema polacco si è guadagnato una certa reputazione all’estero grazie ad un esercito di autori di talento, alcuni dei quali erano attivi anche all’estero. Negli anni novanta abbiamo consacrato i nostri sforzi a scimmiottare il cinema hollywoodiano. Anche quelli che allora provavano a fare qualcosa di diverso e con maggiore qualità, come ad esempio Wladyslaw Pasikowski, hanno avuto un certo successo solo in patria. A partire dal decennio successivo invece il cinema polacco è stato accolto sempre meglio nei festival internazionali. A mio parere la storia del nostro cinema dopo il 1989 è ancora troppo breve per poter ipotizzare la riuscita di determinati generi che non erano mai esistiti fino a quel momento. Soltanto con il tempo capiremo se i film dell’orrore sono destinati a diventare un genere di successo in Polonia. Intanto nel nostro cinema mancano le figure di «pazzi di talento». Andrzej Zulawski ad esempio era uno di quelli capaci di pensare il cinema fuori dagli schemi. Nonostante questo è indubbio che il nostro cinema stia attraversando una fase di fioritura, soprattutto se guardiamo alla qualità media dei film prodotti negli ultimi tempi.

Per la realizzazione di «In the Name Of» (2013) Lei ha avuto l’opportunità di dirigere Andrzej Chyra. Che cosa ha Chyra che non hanno gli altri attori in Polonia?

In quel film lui interpreta un prete cattolico chiamato a confrontarsi con la propria omosessualità. Detto ciò, Andrzej ha ’un certo non so che’ che ho ritrovato finora soltanto in alcuni attori di lingua inglese con i quali ho avuto il piacere di lavorare. Naomi Watts è una di queste persone. L’autentica nonchalance di cui fa sfoggio davanti alla camera unita al suo carisma lo portano a distinguersi dagli altri, almeno secondo me. Chyra è anche uno dei pochi interpreti polacchi capaci di recitare con toni attenuati senza perdere nulla in termini di espressività.

«Non ci sarà mai più la neve» è stato presentato in concorso a Venezia mentre molti degli altri lavori che ha realizzato hanno fatto furore alla Berlinale. Le manca ancora una partecipazione a Cannes, per quale motivo?

Ci sono delle ragioni pratiche legate al calendario. Per un motivo o per un altro la lavorazione dei film che ho realizzato fino a questo momento non è stata completata in tempo per trovare delle buone opportunità a Cannes. Posso affermare di essermi trovata molto bene a Venezia e mi piacerebbe tornare in competizione in Laguna con un altro film. Allo stesso modo sarei lietissima di entrare in concorso a Cannes in futuro. Eppure mentre lavori a un film i festival non sono proprio la prima cosa che ti viene in mente.