Il festival di Cinema e donne di Firenze, organizzato dal Laboratorio Immagine donna sarà programmato online fino al 30 novembre on demand su PiùCompagnia in collaborazione con Mymovies a cominciare da mercoledì 25 (dalle ore 10). Si presenza come un puzzle che alla fine si ricompone lasciando tanti spunti di riflessione, dove si fronteggiano armoniosamente «realiste» e «visionarie», come sono catalogate rispetto al diverso atteggiamento le registe che esplorano il presente e quelle che vogliono dare forma al futuro, alle percezioni, ai desideri. Sono in programma anche alcuni dei film più belli presentati negli ultimi festival internazionali, impossibili da vedere al cinema: si inaugura con uno dei nomi più importanti della nuova generazione polacca, Malgorzata Szumowska, riuscita ad approdare nelle nostre sale con Mug (Face, 2018), e alla recente mostra di Venezia con Non ci sarà mai più la neve, algido e come proveniente da una dimensione aliena, candidato all’Oscar per la Polonia.

Szumowska con quella sua personalità stridente, provocatoria, specchio dei suoi tempi e del suo paese ma visto attraverso specchi deformanti, dove la spiritualità si fa largo per venire stroncata nel modo più inaspettato, in un paese dove le gigantografie di Giovanni Paolo svettano tra i palazzi e dove si vieta l’aborto terapeutico, si ha la sensazione che la sua non sia una voce isolata, ma un comune sentire a cui lei dà voce con l’arma della tipica commedia nera. Così è Corpi (Cialo) il film che inaugura il programma di «Cinema e donne», Orso d’argento a Berlino 2015, un oggetto di palpabile dolore e insieme di arguzia, dove anoressia e bulimia della giovane protagonista sono seguiti di pari passo con le suggestioni esoteriche. Il tema del corpo, un primigenio elemento della riflessione femminista si allarga a scrutare con lo stile tipico di Szumowska, visibile e invisibile, dramma e commedia, sociale e politico.

Non solo corpi rinsecchiti dal digiuno, ma anche sfuggiti alla morte (come in un incipit folgorante), corpi dissezionati sotto lo sguardo impassibile del procuratore che non vuole uscire dalla sua recente vedovanza né concedersi risposte sull’aldilà. Corpi di cani giganteschi, di bambini caduti dalla finestra. In una plumbea atmosfera che avvolge tutto scivola tra un personaggio e l’altro l’ombra antica del dibbuk, la speranza di un aldilà loquace e desideroso di collegarsi coi mortali, veggenti e spiritisti e la suprema ironia di percepire una casa infestata, ma nei 50 metri quadri del classico blok, con la giuliva colonna sonora di «You’ll never walk alone».

Altrettanto visionario è A portuguesa di Rita Acevedo Gomez (a cui abbiamo dedicato attenzione sulle pagine del manifesto), da Robert Musil, contrapposizione di stato di guerra come attività insostituibile per l’uomo e isolamento della nobildonna portoghese portata nel castello del Trentino dal nobile italiano e lì lasciata ad aspettare il riposo del guerriero, ma non invano, perché c’è una realtà minimale da mettere in scena scavalcando le insidie del film in costume.

Tra visionarie e realiste, un altro film fondamentale in un festival di cinema e donne è programmato mercoledì Delphine et Carole Insoumuses di Callisto McNulty, 2019 (on demand da giovedì ore 10) dove Delphine Seyrig autentica musa della Nouvelle Vague (con Truffaut, Demy, Bunuel, Resnais da una parte, ma dall’altra con Margherite Duras, Chantal Ackerman, Liliane de Kermadec, Ulrike Ottinger) e Carole Roussopoulos sono raccontate dalla nipote di Roussopoulos, con materiali d’archivio, nella loro attività di cineaste pioniere del videofemminismo con i collettivi «Insomuses» e «Video Out» con cui hanno documentato il movimento femminista francese, fondatrici del Centro Audiovisivo Simone de Beauvoir.

Tra ricerca dell’identità femminile, passione per il cinema e pasticceria è Hab esordio dell’ungherese Nòra Lakos già autrice cortometraggi che hanno ricevuto premi e serie tv. In programma venerdì La hija de un ladròn esordio di Belèn Funes (Spagna, 2019), miglior opera prima ai Goya 2020 e Concha de Plata, il premio migliore attrice per Greta Fernandez all’ultimo Festival di San Sebastian, ritratto di una ventenne nella periferia di Barcellona che decide di rimettere insieme la sua famiglia non fosse l’azione di disturbo del padre appena uscito dal carcere a complicare le cose.

Di grande impatto i documentari in programma, a sottolineare la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, Nasrin di Jee Kuffman (giovedì 26) sull’azione dell’avvocatessa impegnata in Iran in difesa dei diritti civili e contro la pena di morte, condannata con l’accusa di propaganda contro lo stato. Una storia di diamanti e Olocausto in Cuba’s Forgotten Jewels: A Haven in Havana di Judy Kreith, Robin Truesdale; Tódallas mulleres que coñezo dell’artista visiva Xiana do Teixeiro (Spagna, 2018) una regista che lavora sull’identità di genere, è una riflessione sullo squilibrio sociale tra uomini e donne, osservati in tre contesti significativi dove emerge la discussione su come eliminare la paura senza usare la paura e la violenza senza usare la violenza. Invito all’attenzione che può salvare una donna dalla violenza è il corto-giallo Lontano da qui di Tommaso Santi.

L’antropologa cineasta Silvia Lelli con Histoire d’H crea una performance lirico terapeutica, documentario sperimentale su silenzio e invisibilità, incesto e sue ripercussioni. Memoria ed emigrazione in La Napoli di mio padre di Alessia Botton, un viaggio in treno da nord a sud per raccogliere i ricordi di un’epoca lontana; Off identikit di Veronica Santi, ritratto della critica d’arte Francesca Alinovi uccisa nell’83 attraverso i ricordi degli artisti newyorkesi con cui ha lavorato e interviste inedite di Francesca Alinovi a Keith Haring, Rammellzee e A-One, documentario che ha vinto la Sezione Italiana della seconda edizione del Festival DocuDonna.