Cosa ci affascinava tanto dell’Afghanistan? Quando con qualche sodale ricordavamo il Viaggio all’Eden, il viaggio che da Milano ci aveva portato a Kathmandu attraversando tutte le sfumature geopolitche dall’Asia, ci chiedevamo cosa ci potesse mai essere in un Paese senza mare, coperto di montagne e deserti rocciosi, con paesaggi mozzafiato ma nemmeno un albero sotto cui riposare o un prato verde (entrambi vere rarità) con cui rinfrescare almeno la vista. La risposta arrivò quando fu il lavoro di reporter a riportare il viaggiatore nel Paese di re Amanullah, il riformatore che negli anni Venti aveva fatto come Atatürk e levato il velo a sua moglie e che, anche per questo, era stato esiliato da mullah e conservatori in Italia. Come Zaher Shah, monarca meno riformatore e amante della bella vita che teneva un pezzo di Kabul a palude per cacciarci le anatre e che un golpe repubblicano, ordito in famiglia, aveva lui pure esiliato nel Belpaese.

Ma non era per quello che avevamo l’Afghanistan nel cuore. Pur vessato da dieci anni di conflitto coi sovietici, oltre un lustro di guerra civile tra mujaheddin, il pugno di ferro dei talebani, l’Afghanistan conservava il suo mistero che è poi la sua gente: fieri, orgogliosi ed ospitali ma soprattutto dotati di un enorme, esilarante, prepotente senso dell’umorismo. La guerra può ucciderti ma non riesce a seccare la tua anima in questa fetta di mondo. Una battuta, un buffo paragone, un’allusione a mezza bocca e una bella risata. Nonostante tutto, gli afgani ridevano, ridono ancora. Di te, del mondo di se stessi.

Tornare in Afghanistan nel 2000, un anno prima della guerra americana, era stato uno choc naturalmente. La guerra coi russi e poi tra mujaheddin aveva spolpato un paese già magro di risorse e manufatti. I fili di rame della luce erano stati rubati da pali di legno che come scheletri essiccati piantonavano inutilmente strade in cui ogni segno di asfalto era scomparso sotto la pressione delle piene o della siccità. Gli uomini in turbante piantonavano strade e città e, all’ingresso nel Paese, si rigiravano il tuo passaporto nelle mani cercando di leggere un alfabeto a loro ignoto da destra a sinistra o da sotto in su. Quegli uomini ignoranti ma armati fino ai denti, che facevano la fila all’unico telefono esistente alle poste di Kandahar e mangiavano il loro palao seduti sul kalashnikov, erano però solo una parte di quel disastrato paese. Gli altri, la maggioranza, tollerava e sopportava come sempre, anche perché mullah Omar – tagliando le mani ai ladri e decapitando i nemici – aveva imposto un’ordine del terrore che aveva messo però fine a una guerra per bande e a un conflitto già allora pluridecennale.

Le donne, che erano sempre state ombre nella tradizione afgana, adesso erano fantasmi silenziosi cui era negato uscir di casa da sole e ticchettare sui tacchi sul quel che restava dell’asfalto cittadino. Kandahar la bigotta era la nuova capitale. I segni della guerra, in quella metropoli provinciale fatta di fango e paglia, non si vedevano già più, ma la tensione era alta. Guai a sgarrare. La truppa della fede non conosceva pietà.

Dieci anni e una nuova guerra dopo, la capitale è di nuovo Kabul, la città in cui il mogul Babur, conquistatore dell’India, aveva voluto essere seppellito a cielo aperto per vedere quel magnifico campo stellato reso sempre nitido, nonostante la polvere onnipresente, dai 1800 metri di altitudine della capitale. I vigneti che circondavano la cinquecentesca Kabul di Babur non ci sono più e nemmeno ci sono più i piedi di vite che ornavano i tanti giardini, ora minacciati dal cemento, di questa città che, nel viaggio all’Eden, veniva pronunciata a seconda della provenienza: Kabùl, da un italiano o da francese, Kàbul da un americano, Kòbul, da un afgano. Ora quel nome si declina anche in lettone, rumeno, albanese e in tutte le lingue dell’invincibile armata della Nato che, forte di 150mila soldati, questa guerra l’ha persa e ora fa le valige con le pive nel sacco.

Oggi come allora gli afgani hanno tollerato e sopportato: ieri i nostri capelli lunghi, oggi le divise. Ieri le ragazze col crine sciolto, oggi i locali dove si beve alcool e si fa finta di essere altrove. Come all’Atmosphere, dieci dollari per una birra, aperto da un francese e divenuto per anni il ritrovo degli expat, gli espatriati, gli eredi in un certo senso dell’allegra banda del viaggio all’Eden. Anche questi giovani funzionari occidentali cercano il “fumo” afgano senza dar nell’occhio, approfittano della penuria di vita sociale per fare sesso e, i più arditi, vagolano per Chicken Street, la vietta delle cianfrusaglie, in cerca di un buon affare. Sono arrivati a 3mila unità (escludendo i militari) e, sotto l’occhio benevolo della Ue e delle legazioni che allora mettevano alla porta gli hippy, dan feste pantagrueliche dove si beve gin and tonic e puro malto. Gli afgani sono raramente invitati («…tu capisci, quelli non bevono…»).

Jalalabad è una città che se l’è sempre cavata bene. Sta lì, sulla frontiera con il Pakistan distesa in una piana desertica con un caldo torrido protropicale in estate che consente alle banane e ai manghi di proliferare. Vien bene anche l’olivo, lavorato con macchinari italiani ma senza che il prodotto (alla lunga assai costoso) sia mai decollato se non sulle tavole degli ambasciatori.

Sta bene adesso Jalalabad, stette bene durante talebani e i mujaheddin, stava bene durante il viaggio all’Eden. In una città di frontiera si mangia sempre, si compra e si vende, ci si perde nel gran bazar sotto le montagne che annunciano l’unico passaggio a Nordest: il Khyber Pass, il valico più denso di immaginario che esista al mondo. Ieri, oggi, e oltre un secolo fa quando le truppe di Sua maestà, che lo avevano varcato invadendo l’Afghanistan dall’India, lo fecero a ritroso con più cadaveri che sani. Spezzati e spiazzati da una resistenza selvaggia nelle pianure e fiaccati dai montanari che abitano tra la fine dell’Hindukush e i monti Suleiman, confine con il Pakistan, la Terra dei puri.

Allora, il passaggio dal Khyber Pass era un’avventura rivelatrice. Lasciata Jalalabad in autobus, ci si inerpicava per l’erta strada che passa tra gole così alte da farti capire come sia possibile diventare un bersaglio facile anche quando sei in movimento. Al di là e al di qua dal passo c’era – e c’è – una terra di nessuno (che nella parte pachistana prosegue per chilometri attraverso la cosiddetta tribal belt, l’area tribale) nella quale non incontravi l’ombra di un poliziotto o di un militare, afgano o pachistano che fosse. Pecore semmai. O uomini col tipico pakol (il berretto che indossava Massud, per intenderci, basso e di lana arrotolata come certi nostri copricapi rinascimentali) che camminavano tenendo in spalla un fucile dal manico lavorato.

Arrivato che eri al passo dove c’era la frontiera, apparivano finalmente i pachistani che, oltre a metterti il timbro sul passaporto, offrivano, in linea coi tempi, anche varie amenità goderecce: cocaina sintetica, morfina, hascisc di dubbia qualità. Lasciata la frontiera le divise nere o kaki dei Frontier Corps sparivano di nuovo. Eri nella terra dei patani o pathan, ossia degli stessi uomini che in Afghanistan si chiamano pashtun. La frontiera che l’anonimo righello di sir Mortimer Durand aveva disegnato per 2640 chilometri nel 1893, non era solo il confine – sempre contestato – tra il Raj britannico e l’indomito Afghanistan indipendente, prezioso cuscinetto tra i domini della Regina e le voluttà dello Zar. Era lo specchio della maledetta indifferenza della geopolitica nel decidere chi sta di qui e chi di là: che importava allora che la frontiera tagliasse in due le popolazione pashtun della montagna? Che creasse la frizione permanente che ancora grava su quei confini? Bastava – e dopo qualche guerra i britannici lo compresero bene – che queste genti tagliate a metà e che vivevano in quella fetta di mondo che sarebbe nel 1947 diventata Pakistan, godessero di larga autonomia. Così fu, così è. Nessuno metteva e mette il becco negli affari delle aree tribali. Affari? Si, di ogni tipo: raccolta di essenze psicotrope, raffinazione di morfina ed eroina, acquisto e vendita di giovani fanciulle, costruzione e commercio di armi da fuoco, attività in cui i pathan sono ferratissimi.

A Darra Adam Khel le fabbriche di armi sono lungo la strada principale. A Roma, Milano, Kabul o Amman, le boutique del centro vendono prodotti di lusso o, ormai, le stesse firme che fanno di via Montenapoleone una copia di Bond Street e viceversa. Ma a Darra non ci sono vestitini colorati o bijouterie. A Darra si riproduce in mille declinazioni il mitra inventato dall’ingegner Mikhail Kalashnikov e si fan copie perfette della Beretta. Per provarli basta andare in strada e sparare in aria. Per esplosivo, jeep e carri armati, ci vuole invece una visita guidata che, ai tempi del Viaggio all’Eden non si faceva di certo. Piace ai nuovi turisti col taccuino, i giornalisti.
Allora il Pakistan era, come la Turchia o l’Iran, solo un luogo di passaggio che aveva però i suoi estimatori. Questi sceglievano i territori del Nord dove vivono animisti e infedeli kafir o dove sopravvivono (oggi grazie a una frana che ha interrotto le comunicazioni) gli Hunza, il popolo che non si ammala e che solo dopo gli anni Settanta, con l’avvento della modernità (e della minerale in bottiglia) ha iniziato ad aver bisogno del dottore. Tanti studi sugli Hunza non sono arrivati a capo né della loro mitica salute né del perché a un certo momento sopravvennero le malattie (inquinamento si disse). Forse le grandi vallate di Swat, che guardano verso la Cina, sono la spiegazione più semplice. Quella vista uccideva anche i nostri microbi urbani impestati di deprimente modernità. O almeno noi così credevamo.

5- continua. Le altre puntate sono uscite il 20, 21, 23 e 27 agosto