Proprio nel giorno del voto su Reddito di cittadinanza e quota 100 al Senato, arriva da Bruxelles un monito che suona particolarmente minaccioso e non fa prevedere niente di buono per la prossima primavera. Il Coutry Report annunciato martedì e pubblicato ieri è una stroncatura secca della politica economica italiana. Non senza appello. Però l’eventuale prova d’appello implicherebbe interventi per nulla conciliabili con la politica economica del governo.

LA LISTA NERA della commissione è lunga. Il rallentamento della crescita italiana, prevista a un miserrimo 0,2%, è il peggiore dell’eurozona. Gli squilibri macroeconomici sono eccessivi, marchio che la penisola condivide solo con la Grecia e con Cipro, provocati da una manovra che «rovescia elementi di importanti riforme» precedenti e in compenso «non include misure efficaci» per la crescita. A incidere negativamente, sottolinea il report, sono state «le incertezze relative all’orientamento del governo che hanno contribuito ad alimentare le pressioni sui mercati» e i «più alti rendimenti dei titoli sovrani». Il bersaglio principale è quota 100, che finirà per «peggiorare la sostenibilità» dei conti pubblici e potrebbe anche «impattare in modo negativo sull’offerta di lavoro». Sul Reddito la linea è appena meno drastica. Certo «bisognerà vedere come sarà realizzato», però la commissaria al lavoro Thyssen anticipa che l’impatto sul Pil «sembra molto alto e bisogna capire se è sostenibile». Nel testo non c’è nessuna richiesta specifica, né si parla di manovra correttiva. I conti salati arriveranno in maggio o ai primi di giugno, con le valutazioni di primavera incluse le «possibili misure necessarie». Dombrovskis non lascia spiragli di speranza: «Nel ciclo di primavera faremo le raccomandazioni, incluse quelle sul bilancio per quelli che ne hanno bisogno. L’Italia sarà certamente tra questi».

LA PARTITA CHE NON si è mai chiusa davvero e che a dicembre aveva visto solo la conclusione di una fragile tregua, peraltro fatta pagare all’Italia con clausole di garanzia pesantissime, si è di fatto già riaperta. Tra maggio e l’inizio di giugno arriverà il giudizio sul Def, che Tria sta già preparando, per ora senza consultare gli alleati, e l’intimazione, probabile se non ancora certa, di una manovra correttiva. Eventualità della quale il premier e i due vice non vogliono sentir parlare.

LA RISPOSTA A CALDO arriva proprio dal Conte: «Intendiamo promuovere crescita ma anche equità sociale». Le stime Ue «sottovalutano l’impatto delle nostre misure economiche». E’ repertorio. La realtà è che il governo italiano scommette su una sola carta per evitare di trovarsi in un vicolo cieco subito dopo le europee: la speranza che quelle elezioni terremotino il quadro dell’intera Unione in misura tale da riaprire tutti i giochi e rimettere tutto in discussione. Perché i conti sono il vero scoglio che i due leader decisi ad andare avanti insieme comunque, Salvini e Di Maio, devono trovare il modo di aggirare. Se le urne di maggio non faranno il miracolo sarà inevitabile rimettere mano alle riforme approvate ieri dal Senato. Oppure varare misure sanguinose di segno opposto. Se a decidere fosse Bruxelles, la mannaia si abbatterebbe su quota 100. Ma non è nei poteri della commissione intervenire nel merito delle scelte dei Paesi. Dunque, se bisognerà rivedere le riforme o comunque procedere con nuovi interventi, a orientare le decisioni saranno i rapporti di forza ed è difficile evitare la sensazione che si stia lentamente completando un accerchiamento dell’anello oggi più debole, M5S. A partire dal caso Tav che invierà un segnale preciso.

È DIFFICILE ANCHE immaginare che sia del tutto estranea al nuovo scontro con la commissione la clamorosa rivelazione-denuncia di Tria di fronte alla commissione Finanze del Senato: «L’allora ministro Saccomanni fu praticamente ricattato dal ministro delle Finanze tedesco Schaeuble. Disse che se l’Italia non avesse accettato il bail-in si sarebbe diffusa la notizia che il sistema bancario italiano era prossimo al fallimento». Forse è solo una coincidenza. Forse è il segno che i rapporti tra Roma e l’Europa si sono già arroventati di nuovo.