Di Malcolm Morley, deceduto qualche giorno fa a ottantasei anni, prima della carriera di artista, colpisce l’infanzia disagiata, quasi dickensiana. Frequenta una scuola navale. Ha una gran passione per i modellini. Durante la Seconda Guerra Mondiale rimane traumatizzato. Una notte, il suo palazzo viene bombardato: la corazzata H.M.S. Nelson che stava costruendo finisce polverizzata, come la parete di casa. Viaggia in nave. Viene arrestato per furto e condannato a tre anni di prigione.

Mentre li sconta, legge il libro di Irving Stone sulla vita di Van Gogh e inizia a dipingere. Si iscrive a un corso per corrispondenza. Quando esce, si arrabatta, dipinge acquerelli, frequenta il Royal College of Art, a Londra. Arriva il primo choc: la mostra degli espressionisti astratti americani alla Tate. È il 1956. Della mostra alla Tate ricorda l’impatto con le opere di Clyfford Still, Rothko e, soprattutto, Barnett Newman. Parte per gli Stati Uniti. Raggiunge una ragazza ebreo-russa che aveva conosciuto su un bus. Si sposa e si separa. Torna a Londra per diplomarsi. Viaggia in transatlantico. Si trasferisce a New York. Dipinge. Cerca una sua «casa», cioè una modalità espressiva propria, che lo affranchi dalle correnti, dalle mode.

Sono i tempi dell’espressionismo astratto e della Pop art. Warhol si era preso le bottiglie di Coca Cola, Lichtenstein i fumetti, Wesselmann le labbra e i grandi seni. Morley ci prova con i transatlantici. Scende nel porto e cerca di dipingerne uno. Le dimensioni sono enormi, sfuggono. E poi c’è la faccenda meteorologica. La luce cambia, o piove: è un casino. Così decide di lavorare a partire da fotografie, cartoline, depliant. Le copia letteralmente. Trasferisce non il transatlantico, ma la fotografia, su tela. L’ingrandisce, facendole fare un enorme salto di scala. Lo chiameranno Iperrealismo, Foto realismo, o – come preferiva Morley – Superrealismo. Con lui cui sono Chuck Close, Ralph Goings (e prima di loro Richard Artschwager).

Rispetto ai mezzi di riproduzione meccanica della Pop art, gli «iperrealisti» compiono il gesto inverso. Dipingono a mano. Morley utilizza una lente di ingrandimento e una griglia fittissima. Capovolge il quadro e lo nasconde, fatta eccezione per la minuscola porzione da dipingere. Vuole restare distaccato. Vuole: «far affiorare la superficie della tela, ma senza provocare onde». Tutto è piatto, il tocco invisibile, cancellato.
Un marinaio sa che senza vento non ci saranno onde. Morley invece farà i conti con qualsiasi corrente atmosferica. Col tempo il suo tocco cambia, come i mezzi utilizzati. Performance, sculture, combined painting. Ma su tutto resta la pittura. Rispetto alla nettezza superrealista, il tratto si allarga, si fa a volte impreciso, astratto, brutale. Sembrano quadri realizzati da un marziano. Una volta Dalí gli ha detto: «Malcolm, lei ha un occhio fantastico; dovrebbe dipingere cose che nessuno abbia mai visto ma che siano reali». Lui lo prese alla lettera.