È la storia della Calabria dal 1945 ad oggi. Ma è raccontata in modo differente dalla vulgata. Ha preso forma e sostanza non appena sono stati tirati fuori dai polverosi archivi alcuni documenti relativi alla «Repubblica rossa di Caulonia». E mentre prendeva corpo l’inchiesta su Riace che ha fatto scattare gli arresti del sindaco Mimmo Lucano. Ilario Ammendolia, storico, giornalista, «militante irregolare e anomalo della sinistra» (così si definisce), unica tessera in tasca quella del partito Radicale, garantista indefesso, artefice con Lucano della «dorsale della solidarietà» (esperimento di ripopolamento della Locride grazie all’accoglienza dei rifugiati, poi, scientificamente, annullato dalle politiche repressive dello Stato) ripercorre nel suo ultimo pamphlet La ’ndrangheta come alibi (La Città del Sole, pp. 158, euro 15) la storia «di un popolo sconfitto piuttosto che una vicenda criminale come molti vorrebbero far credere». I due lembi estremi di questo racconto hanno come protagonisti i diseredati: gli «straccioni» di Caulonia e i migranti di Riace.

SONO I PUNTI di partenza e di arrivo di una storia lunga 73 anni. La «Repubblica rossa di Caulonia» è la rivoluzione, durata quattro interminabili giorni, di quei braccianti, contadini, pecorari, mulattieri, caprai, reduci di guerra, ex servi, artigiani, che, a un certo punto, finita la guerra, diventano padroni del proprio destino, formano un blocco storico, assurgono a classe dirigente. E insorgono. Li guidava un capopolo, un maestro elementare, sindaco di Caulonia per acclamazione e comunista, il quale «sorse a rivendicare il diritto del ‘quarto Stato’ a entrare nella Storia» come brillantemente scrive Mimmo Gangemi nella prefazione. La repressione fu violenta. «La ‘malavita’ diventa l’alibi per delegittimare i contadini. Le ‘quattro giornate’ di Caulonia anticipano molti eventi dei nostri giorni iniziando dal comportamento dei corpi separati dello Stato che hanno utilizzato la ’ndrangheta per criminalizzare le istanze di libertà e giustizia sociale».

VIENE REPRESSO (ne è tragico esempio la fine di Giuditta Levato e, ancor prima, l’eccidio di Melissa) il movimento contadino che si sviluppa a partire dai decreti Gullo che «non contenevano nulla di particolarmente rivoluzionario se non in due righe in cui si invitavano i contadini a organizzarsi in ‘associazioni regolarmente costituite in cooperative o in altri enti’ per rivendicare il diritto a occupare i terreni di proprietà privata che risultino non coltivati o insufficientemente coltivati». Oltre settant’anni di storia che si dipanano in 150 pagine pregne di spunti e di analisi.

L’AUTORE con la sua acuta penna attraversa le lotte per le terre, l’operazione Marzano, il summit di Montalto, la stagione dei sequestri di persona. Per arrivare ai giorni nostri e all’attacco sistematico all’idea Riace, quella di un mondo giusto e accogliente. La tesi convincente di Ammendolia è che la Calabria dal secondo dopoguerra in poi sia stata vittima di un unico disegno repressivo che ha utilizzato la cosiddetta legalità come arma verso i più deboli, come «alibi per marginalizzare il sud», per colonizzare e criminalizzare il popolo calabrese. Tutto ciò – secondo l’autore – sarebbe avvenuto con il consenso di larga parte del ceto politico, sostanzialmente inetto, colluso e subalterno al sistema di potere dominante. Nel volume non c’è alcuna nostalgia neoborbonica né indulgenza verso forme di anacronistico secessionismo.
A un mese dalle regionali in questa bella e dannata regione, è un libro che aiuta a riflettere per capirla.