Leggere la Casa della Fame (traduzione di E. Allione, Racconti edizioni, pp. 124, e 13,00) comporta l’immersione in un mondo che non esiste più, quello della Rhodesia del Sud degli anni Settanta, prima che diventasse, nel 1980, dopo una sanguinosa guerra di liberazione, Zimbabwe. Quella marginalità e quella sofferenza continuano, tuttavia, a parlare: non ancora risanate, le ferite del colonialismo sono una malattia dell’anima a cui è difficile trovare guarigione.

La breve e tormenta vita di Dambuzo Marechera, e la sua vicenda letteraria raccontano proprio questa malattia. Era nato in povertà nel 1952 a Rusape nell’area orientale della Rhodesia del Sud: precoce e brillante, riuscì a farsi ammettere all’Università della Rhodesia, ma ne venne espulso dopo aver partecipato a una manifestazione contro le discriminazioni salariali degli insegnanti neri. Ottenne una borsa di studio al New College di Oxford, ma si fece espellere anche da lì. Durante questo periodo cominciò a soffrire di quei disturbi nervosi, che descrive in modo assai coinvolgente nel libro. Tornato in Zimbabwe nel 1981, morì sei anni dopo di AIDS, dopo avere fatto a lungo abuso alcol e avere vissuto da squatter.

The House of Hunger, la sua prima raccolta (di cui viene tradotto in italiano il primo racconto, che dà il titolo al libro), pubblicato nel 1978 vinse, l’anno successivo, il Guardian Prize for First Fiction. L’oppressione coloniale, il degrado dei ghetti neri, la rivolta emergono attraverso uno stile allucinato e convulso, brutale, in cui si intravede una profonda conoscenza della cultura occidentale: il flusso di coscienza trascina il lettore in un mondo in cui la violenza si fa regola delle relazioni, un mondo di esistenze fratturate e abbandonate a se stesse. L’infanzia, la famiglia il sesso, tutto viene narrato per frammenti in un tumulto di sentimenti, di lacerazioni, di esplosioni affettive. Il libro ha inizio con la fuga dalla township, certo apparente, dal suo degrado dalla sua lingua.

Proprio la lingua è il terreno privilegiato del conflitto esistenziale: «contro la lingua» scrive Marachera nell’intervista a se stesso che chiude il libro nell’edizione italiana «bisogna condurre una battaglia all’ultimo sangue». L’inglese è dei colonizzatori, intimamente razzista: «mi sono adattato all’inglese come un’anatra all’acqua. Ero dunque complice e studente della mia stessa colonizzazione mentale. Da ciò deriva forse l’uso sperimentale che facevo dell’inglese, come una boscaglia che va martoriata per essere resa malleabile ai miei fini». Il successo del primo libro non servì ad attenuare l’aggressività esistenziale di Marachera e il suo atteggiamento autodistruttivo.
I libri successivi, il romanzo Black Sunlight del 1980 e la raccolta Mindblast, or the Definitive Buddy del 1984, se da un lato confermavano la sua effervescenza intellettuale e il suo sperimentalismo linguistico, non incontrarono però un particolare successo della critica. Le sue poesie e altre sue numerose opere sono state pubblicate postume da Flora Viet-Wild, che alla Humboldt Universität, dove insegnava, costitì un fondo dedicato a Marechera, il quale intrecciò con lei, dopo il ritorno in Zimbabwe, una intensa e complessa relazione.