Immaginate di veder sfumare in un giorno solo la vostra vita. Di veder scomparire in poche ore la quotidianità dei gesti, il vostro lavoro, il vostro ambiente sociale. Meno di ventiquattro ore e quelle che erano le vostre certezze non esistono più.

Siete in fuga dalle bandiere nere e dalla brutalità di miliziani che dicono di professare la vostra stessa fede, ma che vi perseguiteranno e opprimeranno nascondendosi dietro un’interpretazione della religione lontanissima da quella in cui avete sempre creduto.

Questo è stato ed è il destino delle comunità sunnite fuggite dalle province irachene di Anbar, Ninewe, Salah-a-din. Milioni di persone che all’arrivo dello Stato Islamico hanno cercato riparo nel Kurdistan iracheno e a est, verso Baghdad.

Centinaia di migliaia di loro, però, si sono trovati la porta sbarrata. Come quelli bloccati a Kirkuk: nella provincia sarebbero almeno 400mila le persone fuggite dalle comunità sunnite a ovest. Sono guardati con sospetto dai kurdi iracheni che associano i sunniti allo Stato Islamico, ma vengono respinti anche dalle città sciite a est e a sud: Baghdad chiude l’accesso per evitare uno sbilanciamento demografico, figlio di settarismi interni e politiche divisorie.

E così restano dove sono, in una zona cuscinetto isolata dalle principali città e quindi da un minimo di stabilità sociale ed economica. Evitano di muoversi in un’area militarizzata, dove gli scontri tra milizie sciite e peshmerga kurdi sono ormai all’ordine del giorno. Vivono in condizioni miserabili, senza denaro, senza un lavoro, impossibilitati a rientrare nei propri villaggi, pesantemente bombardati dalla coalizione anti-Isis. Molti di loro si sono ritrovati a vivere (o sopravvivere) in villaggi poveri, in comunità ai margini, senza la possibilità di trovare rifugio nelle zone sciite controllate dal governo di Baghdad o in quelle kurde sotto Erbil.

Il villaggio di Omar ne è un esempio: comunità piccola, poverissima, che sopravvive vendendo latte e formaggio, oggi ospita centinaia di sfollati, sunniti iracheni, provenienti da villaggi vicini. Molti fanno parte della tribù Shamar, vivevano in villaggi a pochi chilometri di distanza: te li indicano, sono là dall’altra parte di quella grande strada. Oggi vivono in tende o in case di fango, con l’inverno che peggiora le già precarie condizioni di vita.
Le necessità si moltiplicano: un tetto sopra la testa, cibo, coperte, vestiti, una scuola per i bambini. L’assistenza fornita a nord dall’Onu qua è assente, a causa della scarsa sicurezza e degli ostacoli posti dalle diverse autorità, strati che si sovrappongono.

A tamponare l’emergenza c’è Medici Senza Frontiere. Partono il mattino preso da Kirkuk e mezz’ora dopo sono ad Omar: preparano gli ambulatori dentro una delle strutture del villaggio. Con tendaggi colorati dividono lo spazio a disposizione per garantire ai pazienti un po’ di privacy. In un angolo creano la farmacia: i medicinali vengono posti in file ordinate, pronti ad essere consegnati.

Fuori inizia a formarsi una piccola folla: donne, uomini, bambini, pronti a farsi visitare. A sinistra le donne, a destra gli uomini. I bambini ne approfittano per giocare nel cortile. Alle malattie prevedibili tra sfollati con poco cibo a disposizione e il freddo invernale si aggiunge un altro problema: quello psicologico derivante dalla fuga, lo sfollamento, la perdita della propria vita quotidiana e del controllo del proprio destino, la dipendenza da aiuti esterni.

Medici Senza Frontiere porta avanti il progetto di salute mentale in molte comunità nella zona di Kirkuk: offre un sostegno preliminare, una terapia di base a causa delle difficoltà a garantire il follow-up: «Operiamo attraverso l’individuazione dei cosiddetti sintomi fisici multipli inspiegabili, ovvero sintomi che non sono legati ad alcuna malattia fisica e che quindi, con molta probabilità, sono da ricollegare a problemi mentali – spiega al manifesto Susana Borges, capo progetto a Kirkuk – Una volta che i nostri medici li identificano, mandano i pazienti dai nostri assistenti sociali e dagli psicologi che iniziano a trattare il disturbo».

I risultati di una tale attività potrebbero stupire un profano: i casi più comuni non sono i disturbi da stress post-traumatico, ma ansia e depressione. «Reazioni normali a situazioni anormali: queste persone stanno vivendo in condizioni di vita caratterizzate da disoccupazione, assenza di prospettive per il futuro, la perdita delle proprie certezze. La depressione e l’ansia sono reazioni del tutto normali». Normali ma per la società irachena non così facilmente affrontabili: nel paese non esistono strutture per la salute mentale, non esistono competenze né medici specializzati, non esiste un budget destinato. «Nei casi gravi ci si limita a distribuire farmaci, senza prevedere alcuna terapia. Una realtà frutto della concezione della salute mentale come stigma sociale: la associano subito alla pazzia e tendono ad isolarla e nasconderla, senza capire che si tratta di reazioni assolutamente normali in un contesto di violenza ciclica».

Una violenza che in Iraq colpisce da decenni, tanto radicata da aver provocato la scomparsa di molti sintomi di disturbo psicologico: chi ha superato precedenti traumi senza alcun sostegno tende a cancellare le emozioni che questi traumi provocano, entra in una sorta di apatia. Non c’è più emozione, ma aggressività, rabbia.

«Evitiamo di fare diagnosi per non spaventare i beneficiari – continua la Borges – Lavoriamo guadagnandoci la fiducia delle comunità e organizzando sessioni comuni, incontri in cui spieghiamo cos’è la salute mentale e quali sono le naturali reazioni a situazioni di tensione come quelle vissute dagli sfollati. E poi operiamo, quando possibile, con gruppi di supporto: i beneficiari si incontrano, discutono, condividono esperienze e si rendono conto di avere problemi simili. È una terapia di base ma estremamente efficace».

«I pazienti vengono coinvolti nella terapia: qui più che in altri contesti è fondamentale a fornire alle comunità strumenti di resilienza: qui il conflitto è cronico, la violenza è ciclica, non ha un inizio e una fine. È necessario attivare strumenti di difesa e rafforzamento comunitario».

Ci spostiamo in un’ampia tenda nel centro del villaggio di Omar. Alla spicciolata arrivano 19 donne, prenderanno parte ad un primo incontro di gruppo. La giovane assistente sociale di Medici Senza Frontiere, Shihad, poggia a terra un thermos di caffè. E inizia a parlare, a spiegare cosa significhi sentirsi oppressi, senza speranza, spaventati dal futuro. Reazioni normali.

Le donne si aprono: una alla volta ripetono le stesse cose, gli stessi traumi. E le stesse sensazioni: «Non riesco a dormire – dice Ayah – Notti intere senza dormire, vedo teste mozzate. L’Isis ha ucciso mio figlio». «Sono sempre nervosa, qualsiasi cosa mi fa arrabbiare». «Di fronte a me vedo persone uccise, ammazzate dalle bombe. Vedo i loro volti». «Ho sempre paura». «Penso alla nostra vita di prima e a quella di oggi, abbiamo perso tutto».