Malachy Tallack, viaggio sulle tracce della linea invisibile
L'intervista Parla lo scrittore, giornalista e cantautore, ospite al festival «I Boreali». Nel libro «Il grande Nord» affronta, in un’estrema esplorazione, il dolore per la perdita di suo padre. «Credo che a essersi smarrita sia la parte non "civilizzata" di noi stessi, quella che desidera fuggire dalle città, dal lavoro, dalla cultura umana e sì, anche dal linguaggio»
L'intervista Parla lo scrittore, giornalista e cantautore, ospite al festival «I Boreali». Nel libro «Il grande Nord» affronta, in un’estrema esplorazione, il dolore per la perdita di suo padre. «Credo che a essersi smarrita sia la parte non "civilizzata" di noi stessi, quella che desidera fuggire dalle città, dal lavoro, dalla cultura umana e sì, anche dal linguaggio»
Viaggiare lungo il sessantesimo parallelo nord significa intraprendere un viaggio destinato a ricondurci al punto di partenza: un viaggio verso casa sospinti dall’insinuante brezza della nostalgia. Ma che accade se una casa non c’è? Malachy Tallack, giornalista e cantautore inglese, classe 1980 – ospite dal 1 al 3 marzo al festival I Boreali promosso dalla casa editrice Iperborea presso il Teatro Parenti di Milano – racconta in Il grande Nord. Viaggio intorno al mondo lungo il sessantesimo parallelo (Iperborea, traduzione di Stefania De Franco, pp. 256, euro 18,50) la sua nostalgia per le isole Shetland, dimora d’elezione della famiglia da quando lo scrittore aveva dieci anni, un luogo amato-odiato, abbandonato ma continuamente cercato, e mai sentito veramente «casa».
Mettersi in viaggio verso Nord, ricordava Margaret Atwood, significa allontanarsi dal cuore della civiltà per affrontare l’ignoto e l’altro, «significa entrare nel proprio inconscio». Ecco allora che il viaggio del giovane inglese (l’edizione originale del romanzo è del 2015) «verso ovest insieme al sole e alle stagioni, per attraversare la Groenlandia in primavera, l’America del Nord in estate, la Russia in autunno e i paese scandinavi in inverno» è un viaggio nato in fondo per affrontare il disordine e dolore precoce per la morte del padre durante una battuta di pesca, quando lo scrittore era appena adolescente: «Una parte di me non ha mai smesso di aspettarlo, una parte di me è rimasta in riva al lago». A differenza della geografia politica o culturale, che è mutamento incessante, scrive Tallack, il sessantesimo parallelo è certo e definitivo, segna terre in cui «il passato è più vicino. Il cambiamento è preservato con tenacia e solennità».
Ma il sessantesimo parallelo nord non è che un’illusione, una costruzione concettuale che realtà non esiste, così come la stessa immutabilità non è che un concetto: «Cercavo una linea che non esisteva», dichiara lo scrittore, allo stesso modo in cui si cerca un sé granitico che non esiste, perché «la perdita ci modella come una scultrice, ci dà forma e noi sentiamo ogni affondo dello scalpello». Provare nostalgia per un luogo inesistente equivale dunque a guardare al passato «come a quel tempo in cui non guardavamo al passato», «provare nostalgia per l’assenza di nostalgia», equivale a tornare all’origine, a quando, bambini, non avevamo un passato, a quando la perdita non aveva ancora scalfito quel sé che è allo stesso tempo meta originaria e finale.
Alla fine del suo viaggio sappiamo che non ha ritrovato esattamente quanto si aspettava, cade infatti preda di una profonda crisi esistenziale. Sono trascorsi diversi anni da quel tempo: che cosa è cambiato nel suo rapporto con le Shetland?
La cosa principale a essere cambiata per me è che non vivo più alle Shetland. Mi sono trasferito sulla terraferma scozzese proprio mentre scrivevo il libro, prima a Glasgow e più di recente in una città vicino a St Andrews. Pensavo a un trasferimento temporaneo, ma non è stato così. Forse una delle ragioni per cui mi sono sentito in grado di restare lontano dalle Isole è che il mio rapporto con loro è diventato meno complicato di quanto fosse una volta. Considero ancora le Shetland come una delle mie case – tutta la mia famiglia vive ancora lì e ci torno spesso – ma vivo, felicemente, altrove. Scrivere il libro mi ha chiarito questo rapporto «sentimentale», o l’ha semplificato. Non mi sono preoccupato tanto di cosa significasse essere legato alle Shetland, ho solo accettato il mio amore per il luogo. L’uomo che ha intrapreso quel viaggio era più giovane, sia anagraficamente che nei suoi interessi e atteggiamenti. Ma mettere quel viaggio per iscritto, penso, mi ha permesso di crescere, di andare avanti.
Crede che la «costante invisibile» di un luogo di cui parla Lawrence Durrell, una «costante» che definisce un popolo, una cultura, possa essere fatta coincidere con il sessantesimo parallelo nord, una linea in realtà inesistente?
Non credo, e non intendo suggerire che esista una «costante invisibile» che attraversa il sessantesimo parallelo. Se una tale costante esiste, è estremamente specifica, locale, definita dalle particolarità di un luogo circoscritto: il suo clima, il suo paesaggio, per esempio. C’è una grande diversità di climi, paesaggi e culture a latitudine del sessantesimo nord. Mi preme che i lettori di questo libro lo capiscano: il Nord non è un luogo omogeneo. È molti luoghi, tutti diversi tra loro.
Leggendo il suo resoconto della tappa in Alaska e dell’incontro con gli orsi non si può non pensare al film del 2005 di Werner Herzog, «Grizzly man», che narra la storia Timothy Treadwell, l’attivista americano che lì trascorse la stagione estiva per vivere con gli orsi e proteggerli. In una scena del documentario, la voce fuori campo del regista commenta di non aver mai visto in nessuna delle espressioni degli orsi filmate da Treadwell «alcuna affinità, comprensione o pietà», ma solo «la travolgente indifferenza della natura»…
Le creature senzienti raramente sono «indifferenti» nei confronti degli esseri umani. Possono essere curiose, spaventate, accoglienti e, sì, a volte desiderose di mangiarci. Ma anche quando sembrano non prestare attenzione a noi, credo che «indifferenza» non sia la parola giusta per definire il loro atteggiamento. Il film di Herzog, alla fine, dice molto di più sulla follia degli esseri umani (e di un essere umano in particolare) che sugli animali.
Lei asserisce che generalmente si va in Alaska per osservare la «vita selvaggia», una cosa vaga e indefinibile di cui si sente la mancanza nella propria vita. Si avverte una sorta di nostalgia, un desiderio di «ritornare» a connettersi a qualcosa che è andato perduto. Che cosa esattamente lei crede sia andato perduto?
È una questione molto complicata e interessante. Jung diceva che il progresso dell’uomo verso il Logos è stata una grande conquista, pagata però con la perdita dell’istinto e anche della realtà. Credo che a essersi smarrita sia la parte «non civilizzata» di noi stessi, una parte che desidera fuggire dalle città, dal lavoro, dalla cultura umana e sì, anche dal linguaggio Queste cose fanno parte di ciò che ci rende umani, ma possono sembrare vincoli. Per alcune persone quel desiderio potrebbe manifestarsi solo in un viaggio una volta ogni tanto in un luogo «selvaggio». Per altri (come il protagonista del film di Herzog), potrebbe manifestarsi nel restare troppo vicini agli orsi e finire per essere divorati.
A cosa pensa sia dovuta la sua grande infatuazione per la Kamcatka di cui parla nel libro?
La bellezza ovviamente è in gran parte soggettiva, e certi luoghi affascinano certe persone e altre no. Il paesaggio della Kamcatka, per me, è stato quasi travolgente nella sua bellezza. Non riuscivo a togliermelo dalla mente, pure anni dopo il viaggio. Ci penso ancora moltissimo. Allo stesso modo in cui alcune persone sviluppano un’ossessione per luoghi come ad esempio Antartide, suppongo che anche la Kamcatka abbia la caratteristica di essere estremamente remota, straniera e diversa da qualsiasi altra cosa abbia mai visto prima.
Lei scrive che nei paesi scandinavi, la possibilità di una tragedia è considerata preferibile alle misure di sicurezza restrittive che potrebbero essere attuate per prevenirla il riferimento è alla reazione del governo norvegese dopo l’azione terroristica di Breivik del 201, ndr). Sembra che anche le misure adottate dalla Svezia durante la pandemia confermino le sue parole. Cosa ne pensa di questa attitudine dei paesi scandinavi? E lei, si considera scandinavo?
È difficile valutare se l’insolito approccio della Svezia alla pandemia sia stato un successo o un disastro. Ho capito che, nel 2020, il paese ha avuto un tasso di mortalità molto alto rispetto ai paesi vicini, ma negli anni successivi ci sono stati meno problemi «post-pandemici» rispetto ad altre località, come quello dell’istruzione scolastica, per esempio. Sospetto che per coloro che hanno perso i loro cari nei primi mesi e anni del Covid, l’impegno del paese per la libertà sociale non sembrerà granché come compensazione.
Io non mi considero uno scandinavo, no. Le Shetland naturalmente hanno le loro radici culturali nella Scandinavia, e alcune di queste sono ancora visibili (o udibili: nel dialetto, per esempio). Ma sebbene abbia sempre amato il tempo che in diversi periodi ho trascorso in Scandinavia, sarebbe andare troppo oltre volermi attribuirmi quell’identità.
È interessante quello che dice a proposito delle radici del noir nordico. Crede davvero che questo genere letterario sia uno specchio deformante della società scandinava?
Sì, credo che la narrativa poliziesca sia molto spesso uno specchio deformante. Osserva ciò che sembra idilliaco e trova l’oscurità sotto la superficie. Pensiamo ad Agatha Christie, che così spesso ambientava i suoi romanzi in pittoreschi villaggi inglesi. O alla narrativa poliziesca scozzese contemporanea, che sceglie isole e luoghi rurali che sono normalmente pacifici. Ma forse il compito dello scrittore di noir è proprio quello di andare a scovare ciò che giace nascosto.
L’incontro sabato al Franco Parenti di Milano
L’autore comincia il tour italiano oggi, alle ore 18.30, alla Libreria La San Paolo libri & persone di Empoli, in dialogo con Cristina Gerosa e Fabio Cremonesi; domani, alle 19, sarà alla Libreria Arcadia di Rovereto. Sabato 2 marzo, alle ore 16.30, sarà al Teatro Franco Parenti di Milano, per la decima edizione dei «Boreali», Tallack sarà in dialogo con Matteo De Giuli. Prima di lui, alle 15.15 ci sarà Tore Renberg che racconterà il suo romanzo «La mia Ingeborg» (Fazi). Il festival «I Boreali», organizzato da Iperborea – che esplora i diversi ambiti artistici e culturali del Nord Europa – si terrà dal 1 al 3 marzo e aprirà con «I nascosti», progetto fotografico e narrativo di Valentina Tamborra e con lo scrittore svedese Patrik Svensson («L’uomo con lo scandaglio»). La sera, alle 21, il film «Foglie al vento» di Aki Kaurismäki. Domenica, omaggio a Kader Abdolah, con l’autore e la proiezione di un documentario a lui dedicato diretto da Fabrizio Polpettini.
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