Come in ogni edizione la Semaine de la Critique di Cannes, riservata agli esordienti o alle opere seconde, appare uno dei pochi territori fertili, all’interno della macchina festivaliera, in cui scoprire la crescita di nuovi autori e una condivisione di esperienze cinematografiche. Quest’anno il vincitore del premio principale è stato Emmanuel Gras con Makala, un documentario girato in Congo al confine tra il realismo di indagine e la ricerca etnografica. L’autore, che già in quella zona così povera e martoriata d’Africa aveva già lavorato poco tempo prima come direttore della fotografia, segue uno spaccato della vita di Kabwita durante il suo processo di lavorazione del carbone. Ed è proprio quest’ultimo (che in lingua swahili viene chiamato Makala) ad essere il reale oggetto della narrazione, da quando vengono tagliati gli enormi tronchi da cui estrarre il legno affumicato poi sotto la terra, fino al momento in cui dopo essere stato trasportato viene venduto dallo stesso Kabwita nel borgo di Kolwezi.

 

 

 

 

 

 

 

Sarà proprio il viaggio interminabile e sofferente, con una bicicletta carica all’inverosimile di sacchi, dal bosco alla civilizzazione a rappresentare lo spazio in cui Gras costruisce il suo racconto minimalista tra l’estetica della condizione umana e l’etica del lavoro. Confermando al tempo stesso la vitalità di un «genere» nelle sue forme meno allineate di racconto della realtà, quale appunto il documentario.
Gira a mano, in prima persona con una macchina da presa che non smette mai di accompagnare le fatiche di Kabwita dilatando il tempo dell’azione e creando uno spazio di coinvolgimento attraverso le varie angolature di ripresa.

 

 

 

 

 

 

Durante quel viaggio di tre giorni riusciamo anche ad essere consapevoli della realtà che circonda questa storia minimale, una terra martoriata ed aridissima che non offre più nulla al suo popolo, in cui un abitazione rimane utopia ed in cui la fede pare l’unica istanza a cui appellarsi. Qui come non mai la religione è l’umana espressione del mondo in cui ci troviamo, il modo più immediato che ha questo popolo nell’esprimere i sentimenti verso la propria condizione.

 

 

 

Emmanuel Gras, dopo l’interessantissimo esordio di Bovines, torna dunque a filmare l’espressività evitando continuamente di neutralizzare il reale anche attraverso il rapporto molto profondo che stringe con Kabwita e tutta la sua famiglia. Grazie ad un grande lavoro sulla fotografia e sui dispositivi di ripresa pone lo spettatore nell’ottica di prestare la giusta attenzione a ciò che viene proiettato sullo schermo con l’ausilio di una colonna sonora potente ma ridotta a poche note di violino continuamente riprodotte, in grado di ampliare la risonanza di quella figura nel paesaggio.
Ciò che rimane è l’esperienza di una film materialista e panteista ma allo stesso tempo concettuale e politico, che trasforma continuamente il lirismo in atti concreti e semplificati al massimo (il passo, il respiro, lo sguardo ecc ecc.). Tutto questo è rappresentato dalla complicità creatasi tra autore, attore e dispositivo nel definire il racconto che rende partecipi con empatia. Un film sulla dignità del lavoro e sulla bellezza umana filmata al limite del tracollo ma pienamente cosciente della propria dialettica nella società in cui si esercita di sopravvivere.