Nelle opere e nei giorni di Louis Majorelle può trovarsi quella spartizione che è determinata, nella vita dei santi, dalla conversione. Fino al 1894 egli aveva, infatti, condotto un’esistenza artistica vuota di grazia, ripetendo i modelli coi quali il padre, Auguste, si era assicurato una buona fama come creatore di antichità contraffatte. Bourget scrisse una volta che il XIX secolo, a forza di raccogliere e confrontare tutti gli stili, aveva dimenticato di fabbricarsene uno: i Majorelle secondavano questa voglia romantica di bazar, rifacendo ora il Luigi XV, ora il Luigi XVI (rimesso in voga dall’Imperatrice Eugenia), ora le cineserie del XVIII secolo, appena un po’ manomesse dal turgore tipico dell’Ottocento.
Erano gli anni delle Esposizioni Universali, gran caravanserragli cosmopoliti. Per quella del 1889 Louis disegnò un letto in forma di slitta dalle superfici accartocciate in così strampalati addensamenti di conchiglie e fiorami da spingere il critico Vachon ad affermare che, se quello ero lo stile della fine del secolo, c’era da augurarsi che il secolo finisse presto. Fortunatamente Louis non credeva a quella celebre freddura di Wilde che la modestia è la virtù dei mediocri, seppe perciò prestare orecchio alle critiche e trarre giovamento dalla produzione esposta nella stessa occasione da Gallé di novità assolutamente superiore. Questi mostrava al pubblico il tavolo Il Reno e la vetrina La Flora invernale che influenzarono visibilmente il primo mobile «moderno» di Majorelle, La Source, un tavolo in legno scolpito e smalti, in mostra all’Esposizione delle Arti Decorative del 1894. Se questa vicinanza ispirò a taluni l’ingiusta opinione che Majorelle si fosse limitato a smerciare uno stile giunto già ai suoi vertici con Lalique e con Gallé, altri, come Honour e Fleming, trovarono in lui n «qualcosa di più di un abilissimo volgarizzatore. Se i suoi mobili sono privi della fantasia di un Gallé, posseggono però altre notevoli qualità. Le forme sono quasi sempre ben progettate e le decorazioni intagliate sembrano scaturirne nel modo più naturale. Alcuni pezzi, come il tavolino in forma di ninfea, hanno un’eleganza aggraziata per la quale è difficile trovare paralleli fuori dei mobili rococò francese».
In effetti, tolti i primi anni, la fratellanza dei due artisti è dubbia. I mobili di Gallé mostrano le forme lievi e soffiate dei suoi celebri vetri; essi si reggono su gracili Telamoni-libellula o su lignei fiorami permeati d’aria come denti di leone: il suo universo pertiene, senza equivoci possibili, alla sfera dell’etereo. Dove è questo mondo di palpiti indecisi nelle vibranti linee di Majorelle? Ninfee, alghe, liane, radici, elementi flessuosi e tenaci, costituiscono il suo regno che è acquatile e vegetale, quanto aereo appare, invece, quello di Gallé, il cui lavoro può richiamare certe partiture di Delibes o ancora talune cose del Mallarmé più delicato che s’espresse in aggraziati sonetti come Placet futile.
Dalla tradizione artigiana il figlio di Auguste aveva ereditato un che di materico e concreto. Nella scelta dei «timbri» dei materiali Majorelle pose la più grande cura, impiegando il ferro battuto in combinazione con legni dai toni profondi e rubinosi, come il noce e il palissandro, e il bronzo, corrusco e indorato, per legni dalla gamma più chiara. Questa sapienza dovette molto contribuire all’effetto di vigore e naturalezza delle suture descritto da Honour che può vedersi, oltre che nel mobilio, in talune decorazioni architettoniche, come nella ringhiera dell’Hôtel Bergeret a Nancy nella cui base il ferro s’avvinghia al marmo col gesto di Sarah Bernhardt in Lady Macbeth. All’ incantagione di questo genere d’interni la fantasia dei contemporanei difficilmente poteva sottrarsi. Anche l’assai malevolo Jean Lorrain, allorché visitò il padiglione di Bing all’Esposizione Universale del 1900, rimase soggiogato da come «la rifinizione dei dettagli faccia di ciascuna cosa un pezzo da collezione, un oggetto raro e – per somma delizia – tutto ciò si fonda in un’avvolgente unità». Le lampade, imprigionate nelle polpe traslucide di Antoine e Auguste Daum, portavano a compimento l’unificazione degli ambienti col diffondervi una luce soffice e ambrata, come d’acquario, che doveva farli somigliare ai templi wagneriani immaginati da Sâr Péladan. Nell’insieme cromatico si sentiva il segno lasciato dalle stanze di Des Esseintes nelle quali Huysmans si era dimostrato un lettore scrupoloso della Filosofia dell’arredamento di Poe. Togliete un po’ di misticismo, aggiungete più solidità e vigore e avrete uno dei tipici interni di Majorelle.
Una partitura wagneriana
Nella villa che l’artista fece edificare per se stesso a Nancy da Henri Sauvage potevano vedersi, in effetti, alcuni motivi figurativi riaffiorare ora nei mobili, ora nelle vetrate, ora negli stucchi, come i leitmotive d’una partitura wagneriana: il tema della pigna nel salone, quello della spiga nella sala da pranzo e quello della lunaria nel vestibolo. Il fitomorfismo non si limitava all’aspetto esteriore del mondo vegetale ma si estendeva, come può vedersi, alla sua stessa natura dando una decorazione che avesse la medesima organicità di un arbusto. Malauguratamente i mobili di Majorelle, come è di tutti i fiori, non tollerano di essere recisi dal loro ceppo. Se avessero avuto voce avrebbero detto, come i vegetali di Dante, a chi li separava e disperdeva: «perché mi scerpi?».
Meno bizzarramente complicate di quelle di un Gallé, le creazioni di Majorelle risultano, infatti, meno godibili nella loro singolarità d’oggetti di stravagante design. I suoi quartetti e sestetti di legni, bronzi e paste di vetro si armonizzavano in un canto domestico facile a spezzarsi; eppure, non appena, sfogliando i vecchi cataloghi, se ne ricompone l’equilibrio, quale aroma d’epoca non sprigionano questi interni! Nel ricco apparato fotografico della monografia ormai lontana di Alastair Duncan, Louis Majorelle. Master of Art Nouveau design, sale da pranzo, boudoirs, gran saloni paiono attendere da un momento all’altro la visita di Édouard Mathé o di Stacia Napierkowska per animarsi nella magia del cinematografo.
La magia non durò, tuttavia, molto. Il 20 novembre 1916 un incendio distrusse il laboratorio di Rue du Veil-Aître, l’anno dopo fu la volta del salone delle esposizioni di Rue Saint-Georges, colpito da un bombardamento aereo. Frattanto erano morti sia Gallé sia il maggiore dei fratelli Daum, Auguste. Majorelle sopravvisse di poco alla sua arte, continuando a fabbricare oggetti e mobili nei quali si accodava a un gusto (quello dell’Art Déco che sarebbe trionfato nell’Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes del 1925) piuttosto che guidarlo.
L’Art Nouveau, dopo qualche generazione di oblio, tornò, sul principio degli anni cinquanta, a risvegliare l’interesse dei collezionisti e degli studiosi (Stephan Tschudi-Madsen, Sources of Art Nouveau, è del 1956; Pioneers of Modern Design from William Morris to Walter Gropius di Nicolas Pevsner del 1960) ma i suo arredi si erano frattanto dispersi dimodoché i mobili di Majorelle e degli altri artisti della Scuola di Nancy finirono spesso col trovarsi ricomposti in quel bric-à-brac contro il quale il loro stile aveva drasticamente reagito. Majorelle è tutt’uno con la sua epoca: quando le bombe caddero sui suoi magazzini, gli orologi si ruppero e le lancette si fermarono per sempre sulla data di decesso della Belle Époque.