«O uomini, vi abbiamo creato da un maschio e una femmina e abbiamo fatto di voi popoli e tribù, affinché vi conosciate a vicenda. Presso Dio, il più nobile di voi è colui che più lo teme». Così recita il Corano alla sura 49, ayat 13. È questo il versetto del Libro sacro ai musulmani ricamato sul prezioso tessuto decorativo con tecnica khayamiya donato dal re egiziano Fouad I all’Islamic Institute di Leida (Olanda) nel 1933.

CONSERVATO al National Museum of World Culture di Rotterdam, questo manufatto è tra le opere esposte all’interno dell’Abbazia di San Giorgio nella mostra che serve a contestualizzare il progetto The Majlis: a meeting place, uno degli eventi collaterali ufficiali della Biennale di architettura. Tra gli altri oggetti esposti, vi sono strumenti musicali, selle da cammello e qualche tappeto, tra cui il grande mamelucco giunto a Venezia nel Cinquecento: acquistato per celebrare le reliquie di San Rocco, è di proprietà dell’omonima confraternita veneziana. Altri manufatti arrivano dal Sheikh Faisal Bin Qassim Al Thani Museum di Doha e dal monastero di San Lazzaro degli Armeni.
Promosso dalla fondazione olandese Caravane Earth, The Majlis è una riflessione sul tema How will we live together? Espressione della cultura nomadica preislamica, il termine majlis indica in arabo e in persiano il luogo in cui ci si riunisce per discutere, scambiare opinioni e conoscersi. «Anche oggi, nei paesi a maggioranza musulmana il majlis è simbolo del vivere insieme e dell’ospitalità. Di conseguenza, è un ottimo modello di vita comune. Proporlo a Venezia è un modo per ricordare che qui si sono incontrati, per secoli, Occidente e Oriente», spiega il curatore Thierry Morel. E aggiunge che «l’obiettivo è ricordare che purtroppo oggi tanti individui vivono come nomadi, e non per scelta: i conflitti li hanno obbligati a lasciare le loro case, i loro paesi».
Situato nei giardini dell’Abbazia di San Giorgio Maggiore, il majlis in mostra a Venezia ha una struttura in bambù proveniente dalla Colombia («materiale rinnovabile», fa notare il curatore), opera degli artisti Simón Vélez (colombiano) e Stefana Simic. La struttura è ricoperta di tessuti in filo di capra (impermeabile) lavorati a mano dalle donne dei collettivi di Ain Leuh e della tribù Boujad, sulle montagne dell’Atlas del Marocco.

IN ASSENZA degli artigiani nordafricani, che non sono arrivati a Venezia a causa della pandemia, sono stati gli iraniani trapiantati a Venezia a unire queste strisce di tessuto. Attorno al majlis veneziano, l’architetto paesaggista londinese Todd Longstaffe-Gowan ha costruito un elaborato giardino a pianta geometrica – tipica della cultura islamica – con basilico, salvia, maggiorana, borragine, anice. Al centro, un albero di giuggiole di cui i veneziani ebbero a lungo il monopolio. «Ospitare nel nostro giardino il majlis, simbolo di una cultura altra, è espressione di uno dei canoni benedettini, ovvero dell’ospitalità», spiega padre Norberto Villa, abate emerito del monastero.