La Majdan di Kiev è tornata a bruciare. Giovedì le autorità locali hanno tentato di sgomberarla, senza riuscirci. I pochi reduci dell’adunata che fu, ancora acquartierati sulla spianata, hanno appiccato il fuoco ai copertoni che si trovano sul suo perimetro. Ieri invece c’è stata un’esplosione – con due feriti a quanto pare – a ridosso della vicina Casa Ucraina. È uno degli edifici pubblici occupati al tempo della protesta contro l’ex presidente Viktor Yanukovich.
Scene come queste potrebbero ripetersi, con intensità e massa critica maggiori. Nei prossimi giorni, ma molto più probabilmente tra qualche mese, a partire dall’autunno, quando potrebbero saldarsi diversi fattori: stanchezza nei confronti dello sforzo bellico, crisi economica, intolleranza verso i soliti noti che stanno gestendo la partita a Kiev e scarsità di gas, se Mosca lascerà chiusi i rubinetti.

La resistenza della piazza allo sgombero può sembrare paradossale, visto che a palazzo, a Kiev, ci sono nuovi volti. Sia a livello nazionale, con l’ascesa di Petro Poroshenko alla presidenza. Sia sul piano locale, con l’elezione a sindaco di Vitali Klitschko, ex campionissimo di pugilato, protagonista delle proteste contro il passato regime e alleato di Poroshenko, che persegue, con le armi, uno degli obiettivi della Maidan: liberare l’Ucraina dall’influenza russa.

Non era tuttavia l’unica fonte di mobilitazione. La rivolta di piazza, che ha coinvolto non solo facinorosi di estrema destra, ma anche gente comune, esponenti della (risibile) classe media e studenti, ha avuto anche un’altra tensione, orientata alla democratizzazione del paese, a una sana pulizia nei circoli di potere, alla lotta a corruzione, nepotismi e oligarchie.
Qualcosa che trascendeva il solo potere di Yanukovich e le sue ramificazioni cleptomani, contaminando l’intera impalcatura economico-politica dell’ex repubblica sovietica. Neanche la rivoluzione arancione è riuscita a invertire la rotta: le grandi promesse su riforme e terapie d’urto sono rimaste inattuate.

Probabilmente chi s’è ribellato al recente tentativo di sgombero non fa parte né dell’ala dura della Majdan, né di quella sana. La prima se n’è andata al fronte, a combattere contro i filorussi. La seconda è tornata alla vita di ogni giorno. Magari è persino vero, come afferma qualcuno, che molti di coloro che stanno oggi in piazza bivaccano senza troppe pretese. Però al tempo stesso nell’aria di Kiev sibila una parola pesante: tradimento. Non sono pochi coloro che ritengono che la cacciata di Yanukovich non abbia aperto la tanto agognata stagione del cambiamento, lasciando come sempre inalterati gli squilibri del sistema e il potere degli oligarchi. Poroshenko è uno di loro. Rinat Akhmetov, il più ricco dei tycoon, è salito sul carro dei vincitori dopo essere stato uno dei grandi finanziatori di Yanukovich. Dmytro Firtash, che ha macinato grandi proventi con l’energia, ha fatto lo stesso. Ihor Kolomoisky, influente banchiere, è stato nominato governatore di Dnepropetrovsk. Ihor Palytsia, vicino a Kolomoisky, ricopre a Odessa la stessa carica.

Nel frattempo l’economia va a rotoli. Quest’anno il Pil dovrebbe perdere almeno sei, sette punti. La hryvnia, la moneta locale, è crollata. Si contraggono anche export, import, produzione industriale, comparto delle costruzioni. Sale la disoccupazione. Gli ucraini sono più povere che mai. Una parte di questo disastro è imputabile anche ai costi della guerra. E poi c’è il fattore gas. Il taglio delle forniture deciso da Mosca al momento non si sente, ma quando le temperature scenderanno potrebbe avere impatti devastanti.

In sostanza ci sono tutti gli ingredienti per riportare la gente sulla Majdan. Tra l’altro c’è chi dice che i paramilitari, a est, stanno facendosi le ossa per quella che sarà la battaglia di Kiev. Sono sì foraggiati dagli oligarchi, ma potrebbero sciogliere i vincoli e fare da prima linea nella nuova, possibile protesta della Maidan.

Non è da escludere che Klitschko e Poroshenko, presagendo questo scenario e capendo quanto possa fare il gioco di Putin, stiano rispettivamente cercando di sbarazzarsi del presidio della Majdan e di chiudere i conti con i ribelli prima che sia tardi.