«L’io è poco per me – e per voi?». È uno dei versi di Majakovskij che Gianni Toti, poetronico futuriano, cita negli immaginifici titoli di testa del suo videopoema Incatenata alla pellicola, 1983. L’opera fa parte della «Trilogia majakovskiana» realizzata da Toti per la Sperimentazione Programmi della RAI: un omaggio al poeta, a Lili Brik, al cinema, alle utopie rivoluzionarie dell’epoca, in una fervida e struggente mescolanza di alterità non solo politiche, di pensiero, di sguardo ma anche di modi di vita e d’amore.

L’amore che «è al cuore di tutte le cose», l’amore come «libero confronto col mondo intero», come scriveva Vladimir appunto a Lili nel 1923. La storia di Lili Brik (1891-1978), del marito Osip, di Majakovskij, la storia di quelle amicizie, di quell’amore per la vita e per la rivoluzione, e anche la storia di Lili e della sorella Elsa Triolet, che visse a Parigi e fu scrittrice e traduttrice oltre che la moglie di Aragon, sono affascinanti, ricche di spunti, di evocazioni, di cultura e di passione politica nel senso più nobile alto ed esistenziale.

Per Toti fanno parte di un universo di riferimento costante, con Velimir Chlébnikov e il suo «linguaggio transmentale», Dziga Vertov, Ejzenštejn; quanto a Majakovskij, giganteggia anche letteralmente in suoi lavori successivi, come Planetopolis, del 1994, con la sua statua nell’omonima piazza di Mosca che oscilla su una ininterrotta città che si stende dagli USA all’ex-URSS. Del resto Planetopolis si apre con una dedica a Vertov e con la discesa su un pianeta abitato oggi dalle masse di Ottobre di Ejzenštejn che «avantindietreggiano».

Toti, videoartista e coSmunista, come si definiva ma anche poeta, saggista, scrittore, traduttore, giornalista, era un profondo conoscitore delle avanguardie russe e poi sovietiche degli anni Venti. Ma aveva anche conosciuto personalmente Lili Brik: e una Lili Brik già ottantenne gli aveva donato a Mosca nel 1970 un frammento di Sakovannaja filmoi (Incatenata alla pellicola, appunto), film del 1918 con la regia di Nikandr Turkin, interpretato da lei e da Majakovskij, che ne aveva anche realizzato il manifesto, con un disegno che ritraeva la protagonista avvolta dalle spirali del nastro di pellicola. Toti ha raccontato questa storia in quella bellissima rivista dalla copertina cartonata che era «Carte Segrete» (nel gennaio-marzo 1971): «neppure sequenze, scrive, solo fotogrammi ricuciti adesso con filo di memoria e pazienza…chi ha visto, chi vedrà quei ‘resti’ che non sono silenziosi?» si chiedeva.

La risposta l’ha poi trovata lui stesso decidendo, molti anni dopo, di rimetter mano a quel frammento, di dilatarlo in una sorta di blow-up amoroso, di indagine poetica e antropologica, politica e videocinematografica insieme, nel confronto fra epoche e sogni ma anche fra tecnologie: cine-occhio e video-occhio.

Il frammento era scampato a un incendio alla Neptun Film: due minuti e quaranta secondi in cui vediamo brevi scene fra i due, il cui senso è ricostruibile solo a partire dalla storia, quella di un pittore che si innamora della protagonista di un film, una ballerina in tutù che per amore esce dallo schermo ed entra nel mondo reale.

Uno dei taschinabili scritti da Toti, edito da Fahrenheit 451, nel 1994, Lili Brik e Majakovskij, La leggenda di Cinelandia, contiene anche la simulata corrispondenza ironicamente polemica di Toti con il Woody Allen di The Purple Rose of Cairo, del 1985: storie di uscite dagli schermi!

Majakovskij aveva poi rimesso mano a quel film che non lo soddisfaceva, riscrivendone la sceneggiatura, nel 1926. Il film, Cuore di cinema, non fu mai girato. Toti nella sua Trilogia per la RAI narra in tre modi diversi questo concatenarsi di storie: la prima parte, Valeriascopia o dell’Ammagliatrice, rimette in scena il film del 1918 con una danzatrice, Valeria Magli, e una coreografia sperimentale arricchita dagli effetti elettronici; la terza, Cuor di Tèlema (1984), girato al Museo del cinema di Torino, e con la collaborazione della Cineteca di Bologna, riprende il progetto di Majakovskij, rileggendolo fra documento (si sente anche la voce di Majakovskij), finzione con attori, poesia, videoarte.

Ma è in Incatenata alla pellicola, che dilata quei due minuti e quaranta secondi fino a un’ora, che sboccia lo splendore dei primi piani ulteriormente ingranditi e sgranati in video, il rallentamento di sguardi e gesti, e germogliano gli occhi enormi di Lili e lo sguardo tenero e severo di Volodia, le mani, il bianco del tutù, il cravattino, la nostalgia dello schermo. Con tocchi di colore elettronico, con gli echi e le ripetizioni, con gli sdoppiamenti e con le musiche, con la voce di Toti che recita i versi di Majakovskij e i propri, in cui si cantano l’incanto e il disincanto, le utopie e le disillusioni. «Il vecchio sole rosso domani ancora è non ancora?…Perché i sogni dei poeti restano sogni…e noi sogniamo ancora gli stessi sogni ma noi adesso sappiamo che il sole rosso è solo un trucco elettronico…il sole rosso è solo un trucco elettronico?»

La «Trilogia majakovskiana», realizzata in parte grazie alle attrezzature e con i tecnici della sede Rai di Milano, è illuminante non solo nel percorso di Gianni Toti ma nel contesto delle arti elettroniche in Italia: l’autore vi dispiega una serie di effetti fino ad allora non esplorati compiutamente (o del tutto ignoti) in ambito televisivo, dal mirror allo strobo, dal mosaico all’intarsio a scontornamenti, coloriture, rovesciamenti; insieme a effetti sonori di alterazione, ma ricorrendo anche allo stop-motion di tradizione cinematografica e a scritte sull’immagine. L’idea di Toti è chiaramente quella di rileggere e ricreare le utopie linguistiche e poetico-politiche delle avanguardie storiche con la complessità consentita dalle incessanti metamorfosi elettroniche, più versatili e caleidoscopiche di quelle cinematografiche (pure amatissime: l’opera di Toti è fittamente intessuta di richiami al cinema di ogni epoca), ricche di possibilità di intrecci, confronti, conflitti, simultaneità.

Linguaggi transmentali come lo Zaùm di Chlébnikov, poeta a cui Toti dedicherà il suo ultimo lavoro prodotto dalla RAI, Squeezangezaùm, 1989, titolo di sapore futurista che assembla richiami a Chlébnikov e nomi di effetti elettronici, come appunto lo Squeezoom. «Lirica era l’esistenza ancora, nessuno era autore di niente e tutti autori di tutto» dice la voce di Gianni Toti in Incatenata alla pellicola. Fra quelle utopie c’era anche quella di un cinema che riattivasse e capovolgesse sguardi e pensieri contro la logica dello spettacolo e del profitto («il cinema è un atleta», scriveva Majakovskij) e poi quella di un video (il cuore di Tèlema, appunto) capace di raccoglierne le eredità. Ha funzionato, il sole elettronico?

La RAI non ha mai mandato in onda la «Trilogia majakovskiana», né gli altri lavori di Toti. Tanto che lui negava, polemicamente, di aver mai lavorato per la Sperimentazione Programmi.

E intanto Majakovskij e Lili Brik nei videopoemi a loro dedicati si guardano all’infinito, «verso quell’avvenire, dice ancora Toti, che non può dirsi avvenuto… verso l’in-avvenuto…»