A Nizza poliziotti armati hanno costretto una giovane madre, in spiaggia con la sua famiglia, a togliersi il burkini. Il vestito non rispettava la «buona morale e i valori laici». Imprigionare il corpo della donna in un sudario di lutto, renderlo inespressivo, amorfo, è repressione brutale, indipendentemente dalla percezione che ne ha la vittima. Nella censura del corpo femminile la religione cristiana non è, tuttavia, dissimile da quella musulmana. Il suo orizzonte è la disincarnazione, spiritualizzazione dell’esistenza, che è agli antipodi della profondità psicocorporea destrutturante del coinvolgimento erotico nella donna.

In Europa il cristianesimo è stato moderato in senso laico per ragioni storico culturali (che includono l’eredità dell’antichità classica e il suo potente risveglio nel rinascimento e nel secolo dell’illuminismo). L’evoluzione laica dello stato nel mondo islamico è stata, invece, sistematicamente ostacolata dall’Occidente per motivi di opportunità economica. L’improbabile processo di democratizzazione chiamato retoricamente «primavera araba» (in cui le cattive intenzioni hanno, per l’ennesima volta, avuto la meglio sulle buone), è sfociato in una grave penalizzazione delle donne, private di diritti di cui, pur all’interno di regimi dittatoriali, godevano.

Un atteggiamento autocritico da parte degli occidentali, l’assunzione della loro responsabilità nei confronti delle donne dei paesi musulmani, abbandonate alla mercé dei loro oppressori, è impensabile. La latitanza etica getta luce sufficiente sulla natura vera dell’opposizione al burkini: la xenofobia pura e semplice.

I civilizzatori europei delle reali condizioni della vita femminile poco s’importano. La difficoltà della donna di gestire il rapporto con il suo corpo, tra l’intensità delle sue emozioni e il linguaggio corporeo convenzionale e tra la libertà d’espressione e i canoni estetici (un conflitto che conferisce all’uso del burqa/burkini non solo carattere repressivo ma anche difensivo, regressivo), è oggetto costante di occultamento. La donna, indipendentemente dal credo religioso e la nazionalità, deve essere spogliata o vestita secondo convenienze a lei estranee.

Nel museo di Prado ci sono due raffigurazioni della stessa donna, dipinte da Goya: «Maya vestida» e «Maya desnuda».

La visione del quadro in cui la donna è rappresentata nuda, oggetto di incriminazione da parte dell’Inquisizione, fu interdetta per un secolo. La visione dei due dipinti crea un effetto particolare (chissà se consapevolmente cercato dal pittore). Maya, figura femminile intensamente sensuale, non la troviamo intera né nel quadro in cui appare nuda, né in quello in cui si presenta vestita, ma nello spazio di mezzo dove solo il gioco dello sguardo desiderante può, fugacemente, afferrarla.

La sensualità di Maya emana da lei stessa, il desiderio che la guarda la può solo accogliere. Nella versione vestita, che, velandola, la svela, la nudità si annuncia come condizione non assoluta. La donna non è mai del tutto nuda: il segreto della profondità liberatoria del suo orgasmo (che definisce un’organizzazione sessuale anticonvenzionale, anarchica), è velato, inaccessibile a un occhio estraneo. Con la profondità l’uomo può solo identificarsi, non la può possedere con un desiderio penetrativo, puramente erettile.

Nel mondo unisessuale, fallocratico, che ci insidia, la donna può essere o coperta (il suo corpo aperto alla vita fa scandalo) o crudamente nuda, carne priva di significato. Vista in questa prospettiva, la difesa dei valori laici da parte del primo ministro francese Valls, è penosa, patetica.