Sergei Loznitsa ha quarantanove anni, è nato in Bielorussia, cresciuto a Kiev, e dal 2001 abita con la moglie e le due figlie in Germania. Il paese d’origine, e i luoghi in cui è cresciuto sono però i riferimenti costanti dei suoi film nei quali, e specie in quello d’esordio, My Joy (2010), la «confusione» tra i generi è cifra poetica e di stile. Quella di Loznitsa è anche la generazione venuta al mondo nell’Unione sovietica, che ne ha vissuto la fine attraversando poi le rivendicazioni e i conflitti nazionali, i passaggi politici, i nuovi assetti neoliberisti, le spartizioni di potere. «Credo che per un artista sia necessario stabilire sempre una distanza rispetto al soggetto che affronta. È ciò che Victor Chklovski definisce ’lo straniamento’ di lezione brechtiana» dice. Nel suo caso la distanza è, appunto, quella territoriale, vivere altrove gli ha permesso di affrontare temi tabù come – nel secondo film, In the Fog (2012) dal racconto dello scrittore bielorusso Vasil’ Bykaw – l’occupazione nazista in Bielorussia durante la seconda guerra mondiale, il collaborazionismo di alcuni bielorussi con i tedeschi in funzione antisovietica, e le vendette tra partigiani e sospetti traditori.

Ed è anche qualcosa di più: una scelta che dichiara il punto di vista. Appare con chiarezza nel nuovo film, presentato fuori concorso al Festival di Cannes, Maidan, il titolo che è il nome della piazza a Kiev dove è iniziata la rivolta ucraina divenuta poi guerra civile. «Maidan» in ucraino significa ’piazza’, ma nel corso dei mesi assume il significato di un quasi stato nello stato, una zona liberata e di resistenza contro il governo del presidente Yanucovich. Loznitsa rimane a Maidan dai primi giorni della protesta fino allo scorso marzo, e il film segue la cronologia degli eventi. Filma in inquadrature fisse, senza far parlare nessuna delle persone sulla piazza, e senza alcuna voce off o commenti. Ciò che vediamo, in immagini di estrema potenza, è dato dall’accumularsi dei materiali registrati nel corso dei giorni e delle notti: le riunioni, la folla all’ascolto degli oratori sul palco di cui spesso sentiamo solo la voce senza vedere il volto, i canti, l’inno nazionale e le canzoni popolari ucraine, la preparazione del cibo per chi sta in piazza, le bandiere, anche quelle fasciste. La folla, giovani, anziani, famiglie intere, ragazzini. Fuori il traffico della città, e il suo andamento quotidiano, che sembra procedere quasi in parallelo.

E poi gli ultimatum governativi, le cariche di polizia e esercito, le macerie, il fumo dei lacrimogeni, il rumore secco degli spari. Il sangue, i feriti, l’ordine di combattere a colpi di sassate contro i militari, le Molotov, le prime vittime colpite dagli snipers. L’inquadratura immobile diviene forsennata, è impressionante come il regista e la sua crew (operatore è anche Serhiy Stefan Stetsenko) riescano a reggere una situazione sempre più confusa. La macchina da presa si piega verso il suolo, poi si alza verso il cielo, esprime una fermezza imperturbabile nel cataclisma. Ai funerali dei primi morti, tra lumini accesi e telefonini l’immagine raggela ogni emozione.

Facciamo un passo indietro e usciamo da Maidan. La «Piazza» in questi ultimi anni è stata il luogo fisico e l’immagine della rivoluzione, laddove la metafora, «scendiamo in piazza» si è trasformata in lotta quotidiana. Piazza Tahrir, le piazze a Tunisi, in Siria, ciò che è accaduto dopo il primo momento di rivoluzione sono altre storie, o forse è il corso di una Storia che comunque si sta formando. Il cinema rispetto a questi movimenti della Storia è stato occhio in diretta e non solo perché, grazie alle tecnologie leggerissime, le rivoluzioni sono state filmate molto più che in passato. Certo c’è l’esempio del Newsreel o dei collettivi come Dziga Vertov nel Sessantotto, quando però la riflessione del cinema (degli immaginari?) arrivava dopo, in quella «distanza» di cui si diceva.

Oggi anche per l’accumulo di immagini prodotte il cinema è invece chiamato a un confronto diretto e al tempo stesso obliquo per riuscire a «bucare» l’attualità del presente. Loznitsa dichiara una scelta di campo, posiziona la sua macchina da presa a Maidan. E però lascia vagare lo sguardo anche fuori, nell’alterità di quei «confini» dove compatta visivamente la folla come se fosse un solo corpo che si muove seguendo delle indicazioni: le voci della rivoluzione che chiedono aiuto, che cercano medici, che guidano la battaglia, e nei giorni che la precedono ripetono a loup le critiche al presidente servo di Putin, ai «ladri» del governo che hanno distrutto l’Ucraina e che combattono il proprio popolo. La «cricca» dei giudici e dei poliziotti corrotti. Putin corruzione, potere sono le parole che tornano come ritornelli di pietra. Reclamano le voci l’Europa, il sogno di una diversità. Ma quale? L’Europa è già lì, con prepotenza e senza pudore. Balza alzare lo sguardo intorno alla piazza circondata da insegne Billa, Oviesse, che devastate dal fuoco appaiono quasi beffarde.

L’inquadratura e il suo fuoricampo. A noi sta tirare i film, capire senza un’ideologia che ci offra dove posizionarci. Le tracce della rivoluzione sono molto più segrete.