Parigi, 27 agosto 1929. In quegli stessi saloni del Quay d’Orsay dove pochi anni prima era nata la Società delle Nazioni, il segretario di stato americano Kellog, il ministro degli esteri francese Briand e il suo collega tedesco Stresemann sottoscrivono una dichiarazione comune assai impegnativa, che stabilisce il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti. La penna dorata con cui viene apposta la firma reca il motto si vis pacem para pacem, parafrasi del famoso detto latino, anonimo ma divulgato da Vegezio, si vis pacem, para bellum. Alla fine il Patto di Parigi, così verrà chiamato, sarà sottoscritto da sessantanove nazioni ed entrerà in vigore l’anno successivo.
L’evento è poco noto perché presto clamorosamente disatteso. Nel 1931 il Giappone invase la Manciuria cinese, nel 1935 l’Italia aggredì l’Etiopia e nel 1939 nazisti e sovietici si spartirono la Polonia, avviando in pratica la seconda guerra mondiale. Da qui la scarsa considerazione per un accordo che George Kennan, il teorico della guerra fredda, definì «semplicemente puerile» e Henry Kissinger «tanto irresistibile quanto privo di senso».

Un nuovo ordine
La pessima fama del Patto non ha scoraggiato due professori statunitensi di diritto internazionale, Oona A. Hathaway e Scott J. Shapiro, entrambi docenti a Yale, dal tentarne una clamorosa riabilitazione: ne è venuto un volume stimolante e a tratti sorprendente, Gli internazionalisti Come il progetto di mettere al bando la guerra ha cambiato il mondo (Neri Pozza, pp. 666, euro 25,00)
Il volume, benissimo scritto (e magnificamente tradotto da Filippo Verzotto e Sara Tosetto), pieno di aneddoti coloriti e scene di vita memorabili, ha un impianto diretto e quasi pedagogico, quello della contrapposizione tra un vecchio ordine internazionale, in cui la guerra non era affatto un allontanamento dalla politica civile bensì la politica civile stessa (ovvero, con von Clausewitz, la continuazione della politica con altri mezzi), e un nuovo ordine internazionale, in cui la guerra è illegale, una risorsa estrema, ammessa solo se difensiva. Per gli autori il patto di Parigi sarebbe lo spartiacque tra un prima e un poi. Al di là del suo temporaneo fallimento, le idee del gruppo di intellettuali e giuristi che lo ispirarono, gli internazionalisti cui è intitolato il libro, avrebbero avuto importanti esiti futuri.

La prima parte del volume muove dal 1603, anno della cattura di una caracca portoghese da parte di tre navi olandesi nello stretto di Singapore. Il bottino, condotto ad Amsterdam, era favoloso: oro, seta, damaschi, porcellane per un valore all’asta di 300.000 sterline, una somma pari al 60% del bilancio dello stato inglese dell’epoca. Gli azionisti della Compagnia di Amsterdam, preoccupati della legalità dell’azione di guerra con cui era stata razziata la merce, affidarono una memoria legale al giovane avvocato, già famoso, Ugo de Groot, detto Grotius, ovvero il grande. Quella memoria, a lungo rimasta inedita, sarà alla base dei successivi volumi di colui che a buon titolo è il costruttore del vecchio ordine internazionale, basato, a partire dai trattati di Westfalia, sulla sovranità assoluta (self-sovereignty) degli stati nazionali a scapito delle entità sovranazionali (impero e Chiesa).

Sarà proprio Grozio a fondare sul diritto naturale la legittimità della guerra, superando la classica distinzione tra guerra giusta e ingiusta. Gli stati non hanno un tribunale in cui far valere i propri diritti e la guerra va perciò considerata l’unico strumento di risoluzione dei conflitti. Nel corso dell’azione bellica non si possono commettere determinati atti, da considerare criminosi (il veneficio, il tradimento, lo stupro) ma l’azione bellica in sé, giusta o ingiusta che sia, è sempre legittima.
Malgrado l’avversione di filosofi come Kant o Rousseau che consideravano Grozio il principale sostegno morale e legale di tiranni e guerrafondai, il pensiero occidentale ha a lungo ragionato di pace e guerra in termini sostanzialmente groziani, puntando semmai – con Emer de Vattel – ad affermare quel principio di distinzione secondo cui la guerra è legittima se condotta da un esercito contro un altro esercito, ma non lo è se colpisce deliberatamente la popolazione civile. Ne discesero alcuni accordi internazionali (a Ginevra e all’Aja) finalizzati a proteggere il personale medico e gli ostaggi, a proibire i saccheggi e certi tipi di armi particolarmente crudeli, senza però mettere in discussione la legittimità della guerra.

Dopo l’immane tragedia del primo conflitto mondiale, tuttavia, prese avvio un movimento intellettuale di contestazione della guerra in quanto tale: alla nascita della Società delle Nazioni seguirono gli accordi di Locarno e il patto di Parigi. Hathaway e Shapiro mettono bene in rilievo l’importanza del movimento statunitense per la «messa al bando della guerra»: lo guidavano intellettuali e attivisti come Salmon O. Levinson e James T. Shotwell la cui influenza sulla politica statunitense, attraverso uomini come Summer Welles e Robert Jackson, protagonisti della stesura della carta atlantica, della nascita delle Nazioni Unite e del processo di Norimberga.

A questa corrente internazionalista della politica statunitense (pagine sorprendenti raccontano la strana alleanza, negli anni Trenta, con le correnti isolazioniste, contrarie alla cessione di sovranità ma favorevoli alla rinuncia alla guerra) si affiancò il notevole contributo della intellettualità ebraica centro-europea, il cui esponente più prestigioso è senz’altro Hersch Lauterpacht. Tutti – il più illustre dei quali è indubbiamente Carl Schmitt – erano impegnati nello scontro contro i difensori del vecchio ordine internazionale.
Dopo la seconda guerra mondiale, le conseguenze del prevalere nel diritto internazionale di questo nuovo ordine sono state colossali. Le guerre si sono continuate a combattere, certo, ma con scarsa legittimazione. Ne è una spia singolare la rarefazione delle dichiarazioni di guerra. Malgrado dopo la seconda guerra mondiale gli Stati Uniti siano stati impegnati in importanti azioni militari (in Corea, Vietnam, Kuwait, Afghanistan, Iraq) l’ultima dichiarazione di guerra statunitense è in effetti datata 1942.

Spunti discutibili
Anche la scelta della neutralità è mutata: se nel vecchio ordine veniva rigidamente rispettata, nel nuovo diventa la chiave del diritto internazionale. Sono le nazioni neutrali infatti, ad essere chiamate dagli organismi internazionali a sancire, mediante sanzioni economiche, l’emarginazione della nazione che ha avuto il ruolo di aggressore.

Provocatorio e intelligente, il saggio di Hathaway e Shapiro offre in alcuni spunti discutibili, specie nell’ultima parte, in cui l’esclusiva focalizzazione giuridica tende ad assorbire, e quindi a sommergere, questioni di enorme rilievo: nel XIX e XX secolo, la teorizzazione della guerra totale è stata combattuta da popoli-nazione e non solo da eserciti, mentre la minaccia nucleare ha avuto un ruolo decisivo nel mutamento della percezione della guerra. La questione dei crimini contro l’umanità, infine, ha ascendenze intellettuali complesse, senza le quali non si capiscono a fondo le recenti teorizzazioni della responsibility to protect.