C’è chi una casa, un villaggio, per non parlare di una terra che possa chiamare sua non l’ha mai avuta. Perché il destino si è accanito contro di lui fin da subito e prima ancora che venisse al mondo l’ha condannato a vivere senza una patria. Non stiamo parlando di poche persone. Tra il 2018 e il 2020 nel mondo quasi un milione di bambini sono nati rifugiati, figli di genitori che, per sopravvivere a una guerra o perché perseguitati, sono stati costretti a fuggire dal proprio Paese abbandonando tutto, affetti, lavoro, abitazione. Una condizione, quella di rifugiato, che per molti minori potrebbe durare anni.

La cifra emerge dal rapporto annuale Global trends 2020 sulle migrazioni forzate dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) presentato venerdì a Ginevra in vista della Giornata mondiale del rifugiato che ricorre oggi. «La tragedia di così tanti bambini che nascono in esilio dovrebbe essere una ragione sufficiente per adoperarsi molto di più per prevenire e porre fine ai conflitti e alla violenza», ha detto Filippo Grandi, Alto commissario Onu per i rifugiati, presentando il rapporto.

PURTROPPO NON È COSÌ, anzi proprio l’aumento dei conflitti ha ulteriormente incrementato il numero delle persone in fuga. Nel 2020, si legge nel rapporto, il numero di uomini, donne e bambini in cerca di salvezza da guerre, violenze, persecuzioni e violazione dei diritti umani è salito fino a quasi 82,4 milioni, il 4% in più rispetto al 2019 quando si arrivò a toccare la cifra, già allora considerata record, di 79,5 milioni.

UN’UMANITÀ DOLENTE che se fosse una Paese sarebbe più grande dell’Italia. Di questi, sempre alla fine del 2020, 20,7 milioni si trovavano sotto mandato Unhcr, 5,7 milioni erano rifugiati palestinesi e 3,9 milioni erano venezuelani fuggiti all’estero. 48 milioni di persone erano invece sfollate all’interno del proprio Paese, mentre altri 4,1 milioni erano richiedenti asilo. Le ragazze e i ragazzi sotto i 18 anni rappresentano invece il 42% del totale e, avverte l’Unhcr, sono particolarmente vulnerabili, specie quando le crisi da cui fuggono durano anni.

A rendere peggiori le cose se possibile, c’è poi la constatazione che l’emergenza Covid19 non ha certo spinto molti Stati a una maggiore solidarietà verso i rifugiati. Tutt’altro. Nei mesi in cui la pandemia ha toccato il picco, più di 160 Paesi hanno chiuso le loro frontiere e 99 Stati non hanno fatto eccezioni per le persone in cerca di protezione. La conseguenza è che il numero delle richieste di asilo è crollato del 45%, passando da 2 milioni a 1,2 milioni. Per fortuna c’è anche chi ha trovato il modo di garantire l’accesso all’asilo attraverso adeguate misure sanitarie, come screening medici alla frontiera, o quarantena all’arrivo nel Paese. I Paesi che hanno accolto di più sono Usa, Germania e Spagna, mentre quelli da cui proviene il maggior numero di rifugiati sono Venezuela, Afghanistan e Siria.

UN DATO, INFINE, dovrebbe fra riflettere quanti in Europa, e in particolare in Italia, agitano lo spauracchio di presunte invasioni: l’86% di quanti fuggono trova rifugio nei Paesi più poveri del Sud del mondo.

Il fatto che la maggior parte dei rifugiati non raggiunga l’Europa però, spiega Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr in Italia, «deve spingerci a una riflessione: per questo abbiamo indetto la campagna Insieme possiamo fare la differenza – Together we can do anything, evidenziando il potere dell’inclusione dei rifugiati nei vari ambiti della società attraverso un ricco programma di eventi.

In questo senso, quattro anni fa, Unhcr aveva lanciato il Progetto Welcome – Working for Refugee Integration che, attraverso percorsi di formazione e inserimento in azienda, ha permesso di includere lavorativamente 3.500 giovani rifugiati, grazie alla partecipazione di 300 imprese in tutta Italia.