L’estate del 2003? «Da un punto di vista climatico è una svolta, è un unicum nel panorama climatologico storico. Sulla pianura padana abbiamo circa due secoli e mezzo di dati precisi, e quei mesi spiccano come elemento fuori da ogni contesto», spiega al manifesto Luca Mercalli, climatologo, divulgatore scientifico, volto tv, presidente della Società Meteorologica Italiana, associazione nazionale fondata nel 1865.

Quindici anni dopo, alla vigilia del solstizio d’estate (21 giugno), ha senso riportare alla mente del lettore ciò che accadde?

Sì, perché quella del 2003 rimane l’estate più calda della storia. Per quanto riguarda l’Italia, è anche la prima volta che si supera la barriera dei 40 gradi. Un caldo estremo, che porterà a un bilancio enorme, circa 70 mila vittime solo nell’Europa occidentale, cui incredibilmanete la stampa ha dedicato molto meno spazio e risalto di quello che dà ad un attacco terroristico che fa 70 morti. Ovviamente, questi sono episodi gravi e che ci indignano, ma il primo è il bilancio di una guerra. Dobbiamo ricordare l’estate di 15 anni fa anche perché ha segnato, a mio avviso, una svolta climatica, un nuovo equilibrio sul Mediterraneo: dopo quella del 2003, tutte le successive hanno presentato un’anomalia. E anche se resta la più calda di sempre, anche le altre risultano più calde del passato. Se guardiamo alla speciale classifica, dopo il 2003 seguono le estati del 2017, del 2015, del 2012 e del 2009. Le cinque più calde di sempre.

Questo ci fa capire che ormai c’è una tendenza, per cui in futuro ce ne aspettiamo sempre di più. Luglio 2015 è stato il mese più caldo della storia italiana. I problemi, poi, possono essere acuiti dalla concomitanza tra il calore e le scarse precipitazioni, com’è avvenuto nel 2017. Possiamo considerare quell’anno uno spartiacque, riguardo a una percezione diffusa degli effetti dell’attività dell’uomo sul pianeta?

L’estate del 2003 porta la sofferenza per il caldo al bar, negli uffici, nelle case e negli ospedali, con problemi enormi per i più anziani. A rendere la situazione invivibile è la continuità di temperature elevate, quelle che viene definita «ondata di calore». In quei casi, viene meno anche una forte escursione termica giorno-notte. Le città si arroventano e i muri diventano caldi: le case diventano invibili, e un primo effetto è l’impossibilità di prendere sonno. A questo, almeno in pianura padana, va aggiunto il problema dell’umidità: il caldo asciutto è molto più sopportabile, dal punto di vista fisiologico. Nel deserto, dove l’essere umano suda, ed evapora molto, basta bere molto. Sedendosi all’ombra, però, è facile rinfrescarsi. Dal caldo umido, invece, non c’è riparo. Il corpo umano non riesce a liberarsi del caldo in eccesso con la sudorazione, ma assorbe calore. Se l’aria è giù umida, non si suda. E il meccanismo del corpo va in tilt. Questo provoca i «colpi di calore».

Già nel 2003 era chiaro che il problema principale riguardava le città, anche per il fenomeno delle «isole di calore»?

Ormai il danno fatto da cinquant’anni a questa parte, impostando lo sviluppo urbanistico delle nostre città, è irreparabile. Anche chi volesse intervenire, oggi dovrebbe limitarsi a fare un po’ di verde in più, viali alberati, ma è chiaro che più cementifichi più peggiori una situazione già grave. Nonostante questo, credo che non tutti abbiano consapevolezza. In Italia sono poche le città all’avanguardia, con un piano di adattamento ai cambiamenti climatici. Tra queste metto Bologna. Credo però che nella condizione attuale il più grande elemento di cui si possono occupare gli amministratori è l’informazione. Un lavoro serio ed efficace di comunicazione di protezione civile, per avvisare per tempo i cittadini, è l’unico modo di prevenire il ripetersi di episodi come quelli del 2003. E per fortuna, da allora, s’è iniziato a fare.

L’unica risposta è quindi l’adattamento?

È così, anche se un adattamento tal quale non è pensabile: bisognerà senz’altro mettere più condizionatori, ma questi interventi non possono prescindere da un maggiore isolamento termico e dalla produzione elettrica diffusa da fonti rinnovabili, con i pannelli fotovoltaici. Servono edifici più efficienti, e più facili da raffrescare, perché altrimenti i consumi elettrici andranno alle stelle, rendendo più acuto il problema del climate change. Il condizionamento dell’aria non sarà un lusso, ma una necessità, e dovrà essere efficiente.

La concentrazione della popolazione nelle aree metropolitane può essere considerato parte del problema?

Mentre la tendenza è fuggire dalle aree rurali, io penso che nel mondo di domani le città, esposte a queste ondate di caldo, saranno invivibili. Ed è anche per questo che sono già andato a vivere in montagna, per portarmi avanti sul lavoro. Vista la vicinanza delle area montane di Alpi e Appennini alle città, spero che questo porti a rivitalizzare le aree interne del Paese. Dove potrà trovar rifugio chi scappa da condizioni meno favorevoli nelle città. Perché questo sia possibile, però, serve un progetto. Ci vogliono almeno dieci anni di lavoro, su temi come la viabilità o la banda larga, perché sia possibile vivere e lavorare in modo decentrato. Vivere, davvero, in montagna, riprendendo attività locali oppure sfruttando l’opportunità del telelavoro. Io faccio così, e in città – a Torino – ci vado quando ho degli impegni fissi.