Non è facile sentire e portare su di sé il «peso» di un’intera cinematografia. Mahamat-Saleh Haroun rappresenta, voce sola e costante dalla metà degli anni Novanta, quella del suo paese, il Ciad. Una voce potente che, film dopo film, si è alzata per narrare figure femminili e maschili, la tradizione e il cambiamento, relazioni familiari e sociali, le conseguenze della guerra civile in Ciad, l’emigrazione in Francia, il rapporto con la memoria e il presente.

Tappa più recente di questo percorso di ricerca è Una madre, una figlia (attualmente in sala), in originale Lingui. «È una parola ciadiana, un precetto che risale al regno di Kanem Bornou e che ancora oggi ha grande importanza nella nostra società – spiega Haroun – sta a significare il vivere insieme, il legame tra la gente per mantenere coesione e pace, prendersi cura gli uni degli altri, vivere in armonia affinché non ci siano conflitti».

«Una madre, una figlia» segna il suo ritorno in Ciad dopo la parentesi francese di Une saison en France. Che cosa l’ha spinta a tornare a girare là?

È stata la storia dei neonati che molto spesso vengono abbandonati. Ancora pochi giorni fa uno è stato scoperto in una discarica pubblica e un altro, gettato in un pozzo, lo ha trovato una donna che stava prendendo l’acqua. Quando ho letto degli articoli sui giornali mi sono detto che bisognava fare qualcosa. Non è una novità. Quando ero bambino mi ricordo di un fatto simile, mia madre e le donne del quartiere ne parlavano e io avevo capito cosa era successo: un neonato era stato buttato in una latrina. Decenni dopo nulla è cambiato e così, di fronte a quei casi più recenti, ho iniziato a pensare a questa storia.

Nel film si parla anche di stupro e aborto.

Assolutamente. Le donne sono poste davanti a dei divieti. In tutte le società patriarcali quando sorgono delle crisi si punta il dito contro le persone più deboli dicendo che sono responsabili di certe cose. In Ciad si ritiene che le donne siano colpevoli e quando sono vittime di aggressioni si ritrovano sole, non si risale mai all’uomo che ha compiuto il gesto. Addirittura, sulle reti sociali circolano dei video di stupri commessi in Ciad, me li hanno mandati ma non ho voluto vederli. C’è poi un altro aspetto: in tutte le lingue parlate nel mio paese la parola «stupro» non esiste. E siccome quella parola non esiste, vuol dire che esso non esiste nella realtà. Si costringe una donna ad avere un rapporto sessuale e questo non viene considerato come criminale. Le donne e le ragazze si vergognano a parlarne: come chiamare una cosa che non esiste nel vocabolario? Da parte mia, sono molto contento perché, dopo avere presentato il film in Ciad, si è creato un gruppo di donne che lotta per la legalizzazione dell’aborto. Sarà un lavoro lungo, ci sono forze contrarie rappresentate dalla religione e da molti uomini, ma il film ha permesso di portare alla luce questo soggetto e renderlo un dibattito pubblico.

Le donne sono al centro del film, prendono in mano le loro vite, decidono per loro stesse.

Sì, sta a loro decidere cosa fare del loro corpo, vorrebbero occuparsi del loro destino, senza imposizioni, senza che il loro corpo sia un territorio di conquista permanente dell’uomo. Il film avrebbe potuto prendere la strada della tragedia, perché di fronte a gravidanze indesiderate molte donne sono sprofondate nella solitudine o si sono suicidate, ma volevo rendere le mie protagoniste delle eroine che, a un certo punto, giungono a vincere la loro battaglia.

N’Djamena ha un ruolo fondamentale, è un vero e proprio personaggio. Qual è il suo rapporto con la città?

È un rapporto, come dire…, di amore-odio. È una città che amo molto, e l’amo tanto quanto la detesto, è anarchica, disordinata, sfrenata e allo stesso tempo generosa, sovente senza illuminazione pubblica, costruita non importa come – in particolare penso alle periferie, ai quartieri che crescono senza regole, con le case che spuntano in assenza di un piano urbanistico. Può succedere che spesso il governo demolisca interi quartieri perché la gente edifica senza permessi, e di conseguenza da un giorno all’altro si vedono persone in strada, cacciate da uno spazio ritenuto occupato abusivamente. Volevo comporre il ritratto di una città caotica, un ritratto che fosse certamente visivo ma altrettanto sonoro perché N’Djamena è piena di rumori, di suoni, in continuo fermento. Inoltre, è una città aggressiva, violenta, e quella violenza la mostro attraverso il suono. Madre e figlia subiscono la violenza dello spazio pubblico ed è per questo che la loro casa diventa come un nido, un luogo di protezione. La madre ha cercato di creare uno spazio di calma, di tenerezza, che si sforza di difendere insieme alla figlia dicendosi che la tenerezza è il solo modo di opporsi alla violenza di cui sono vittime e che le circonda.

Si può quindi dire che ha filmato dei quartieri che sono poi scomparsi?

In effetti è così. Il quartiere che ho filmato in Bye Bye Africa (primo lungometraggio di Haroun, del 1999, ndr) è stato sfortunatamente demolito, e là c’era la casa della mia famiglia. Era il più vecchio quartiere di N’Djamena, costruito ben prima della colonizzazione, fatto sparire per decisione del governo per far posto a degli edifici moderni. In quanto cineasta ciadiano, mi rendo conto che filmo i luoghi perché tutto è effimero. L’obiettivo è sempre modernizzarsi per cui tante cose rischiano di sparire e io le filmo per questo motivo. Per mostrare che si è moderni e sviluppati si decide di azzerare tutto ciò che è tradizionale. Filmo per custodire una memoria dei posti che stanno scomparendo.

Ha scritto anche due romanzi: «Djibril ou Les ombres portées» (2017) e «Les culs-reptiles» (2022). Che cosa l’ha portata a scriverli?

Il primo è la storia di un bambino di strada e ha un po’ a che fare con la mia infanzia a Abéché, dove sono nato. L’ho raccontata con un tono poetico, ma anche con tocchi di surrealismo. Il secondo si basa sulla storia vera di un nuotatore della Guinea Equatoriale che nel 2000 ha partecipato ai giochi olimpici di Sydney pur non sapendo inizialmente nuotare e facendo il tempo peggiore di sempre sui 100 metri. L’ho trovata una storia straordinaria e commovente da narrare ricorrendo all’umorismo. Nei romanzi affronto storie che non mi sembrano adatte per il cinema. A spingermi a scrivere è stato l’amore per le parole e per la poesia.

E a fare film è stato l’amore per le immagini e per il cinema…

Esattamente. L’amore per le immagini viene da una bellissima attrice indiana che avevo visto in primo piano, fissava la macchina da presa e, dunque, mi guardava. Avevo nove anni ed era la prima volta che andavo al cinema. Quell’immagine mi rese felice e ugualmente mi traumatizzò, credetti che quella donna sorridesse a me con un sorriso d’amore. Per me quell’immagine ha un aspetto sacro. Le immagini sono quindi qualcosa di sacro. In seguito ho scoperto il cinema e tanti film e registi. Tra questi, Roberto Rossellini è sempre stato un mio punto di riferimento, mi sono innamorato del suo lavoro dopo avere visto Roma città aperta.