A cinquant’anni esatti dalla morte di René Magritte Magritte, Broodthaers & l’art contemporain, ospitata dai Musées Royaux des Beaux-Arts di Bruxelles fino al 18 febbraio, celebra l’opera e l’eredità iconografica e concettuale del maestro belga con una mostra di oltre centoquaranta opere organizzate in due differenti nuclei. Il primo è dedicato a un confronto diretto con il connazionale Marcel Broodthaers, più giovane di René di venticinque anni, che a lui era legato da amicizia e da una giocosa e proficua complicità intellettuale; il secondo, invece, analizza le innumerevoli ricadute del suo lavoro e le influenze che egli ha avuto nei confronti degli artisti dada e post-concettuali, in particolare americani, molti dei quali hanno realizzato opere a lui ispirate, se non rivolto a lui dei veri e propri tributi.
In un modalità paradossale che molto sarebbe piaciuta a Magritte, la mostra comincia con la fine, ossia con l’ultima opera da lui realizzata, il cui titolo, ça va sans dire, è perfetto per eessere il prodromo a un surreale gioco di testacoda. È così, beffardamente, un dipinto intitolato La page blanche – realizzato qualche mese prima di morire per un tumore al pancreas, quasi sessantanovenne – ad accogliere il visitatore e ad aprire il percorso di visita. È un quadro magicamente bizzarro, un paesaggio notturno con la luna piena e delle foglie d’albero, le quali sono però nel posto in cui non si direbbe, ossia dietro il corpo celeste: è la luna a essere inaspettatamente piovuta in terra o sono le foglie a prenderci per il naso giocando a nascondino?
La stranezza compositiva caratterizza anche Le chef-d’oeuvre ou les mystères de l’horizon – un triplice (auto)ritratto con bombetta in tre differenti pose, che cita e rielabora, con piglio novecentesco, il celebre modello di Lorenzo Lotto –, in cui le tre persone, accomunate da un medesimo sfondo, paiono colte in situazioni temporali diverse. Ed è lo stesso Magritte a chiarire, in una conversazione con l’amico scrittore Marcel Lecomte, i suoi intenti, il senso filosofico di quest’opera e, più in generale, del suo dipingere: «Non ho alcunché da esprimere. Cerco semplicemente di fare delle immagini e invento continuamente. Non mi preoccupo dell’idea: è solo l’immagine a contare, nel suo essere inesplicabile. Io dipingo l’aldilà, morto o vivo che sia. La mia pittura è fatta di immagini sconosciute di ciò che è conosciuto. Essa descrive un pensiero costituito delle apparenze che il mondo ci offre e che sono unite in un ordine che evoca il mistero della realtà». Il suo primo obiettivo è quindi coniare immagini, senza alcuna preoccupazione di carattere compositivo; successivamente l’elaborazione linguistica – che avviene attraverso la ricomposizione dei singoli elementi figurativi e un’accorta manipolazione del contesto – genera visivamente quello che a tutti gli effetti è un non-sense: un cortocircuito straniante che mette chi guarda in una condizione di incertezza interpretativa, di paradosso percettivo o logico-razionale.
I meccanismi della rappresentazione sono stati sovente campo di ricerca anche per Broodthaers, le cui opere hanno spesso un gusto ironico che deriva anche dalle sue frequentazioni con il Groupe Surréaliste-Revolutionnaire. La pratica surrealista della destrutturazione e ricomposizione del linguaggio è per lui elemento fondante, come accade ad esempio nel Ritratto di Marie Gilissen, in cui sovrappone il cavalletto in metallo alla fotografia della donna immortalata con il cavalletto: il soggetto fisico (ciò che è rappresentato o funzionale alla rappresentazione) si mescola con l’immagine stampata (la sua rappresentazione) in una circostanza di reciproco rimando, dove ludicamente identità e strumentalità si rincorrono. La questione diventa ancora più intrigante quando, in un video che è anche un doppio ritratto, Broodthaers usa la bombetta dell’amico Magritte e si mette dinanzi alla camera imitandone la posa accigliata per poi cedere il cappello al legittimo proprietario che compie gli stessi gesti. Se da un lato la bombetta corrisponde alla stereotipa immagine dell’artista più vecchio, l’azione tra i due rimescola le carte e il principio di autorialità poiché mette idealmente ciascun artista nella condizione di ritrarre se stesso nella forma dell’altro, Broodthaers nella silhouette di Magritte con il cappello, Magritte nella pantomima del video di Broodthaers.
Cosa rimane allora dell’autore? Ma soprattutto, come può egli incidere nella realtà? La risposta, seppure nella doppia ludica formulazione degli amici René e Marcel, è inevitabilmente profonda: il ruolo dell’artista è quello di svelare (con modalità che evidentemente richiamano la psicoanalisi) la nevrosi celata nell’identità e di contrastare l’orizzonte stabilito e apparentemente inevitabile delle cose. Ne è esempio magistrale e poetico una performance realizzata dallo stesso Broodthaers, che sotto la pioggia scrive intensamente delle pagine di diario, sebbene l’inchiostro del pennino non abbia modo di fissarsi sulla carta e finisca per diluirsi nelle gocce che cadono dal cielo. Incapace di contrastare lo status quo, all’artista non rimane che presentare una suggestione deviante e liberatoria della realtà, in forma liquida e fluente.
Tutta la prima parte della mostra si dipana in un fitto tête-à-tête intellettuale tra i due, con opere messe in strettissimo dialogo (dipinti dell’uno, opere concettuali dell’altro), anche sotto il nume tutelare di Stéphane Mallarmé. È infatti proprio l’artista più vecchio, nel 1946, a regalare al più giovane l’opera del poeta francese Un coup de dés jamais n’abolira le hazard, che, oltre vent’anni dopo, sarà cancellata da Broodthaers riga per riga: diventa cioè un semplice poema visivo costituito da linee nere, omaggio evidente all’amico che quel libro gli aveva fatto conoscere. Non era poi lo stesso René a sostenere come la vera poesia fosse «invisibile»?
La parte successiva della mostra racconta invece come l’eredità di Magritte sia stata raccolta oltreoceano a partire dalla personale dell’artista belga nel 1954 a New York presso la galleria di Sidney Janis. Come scrive il curatore Michel Draguet nel saggio in catalogo, «in quell’occasione una giovane generazione di artisti scoprì l’approccio di Magritte. Il suo lavoro, insieme all’opera di Duchamp, divenne uno dei maggiori veicoli per la riflessione sullo status degli oggetti e sul linguaggio. Proprio la questione del linguaggio faceva nuovamente sorgere la questione degli oggetti, che il movimento Pop aveva manifestamente scansato». Ecco allora opere neo-dada di autori come Jasper Johns, Robert Rauschenberg, che realizzano dei veri e propri tributi a Magritte riprendendo alcuni dei suoi approcci concettuali oppure, più icasticamente, alcuni dei tuoi topoi iconografici, come ad esempio fanno Ed Ruscha, che rende surrealmente liquide delle forme solide, o Johh Baldessarri, che impiega visivamente la silhouette come forma piatta da ritagliare all’interno di una composizione di immagini. Le scarpe avvolte dalla fodera di James Lee Byars agiscono invece sull’inconscio e sul desiderio di vedere dell’osservatore: celano astutamente l’oggetto per mostrarlo nella sua interezza linguistica, senza mostrarne però i reali connotati. Altri artisti praticano in forma variata i soggetti iconografici, come Keith Haring con la celebre pipa cui aggiunge delle zampette, o George Condo con Le stropiat (Lo storpio), che riprende con gusto e verve espressionista un autoritratto del pittore di cinquant’anni prima.
La mostra è chiusa magistralmente con un lavoro di Robert Gober che in maniera istantanea trasforma il luogo espositivo in una prigione, semplicemente ricorrendo a delle sbarre di metallo e alla costruzione di un muro posticcio verso quella che ci si aspetta essere l’uscita. Del tutto inattesa, quell’opera fa venire i brividi alla schiena. Sensazione di inquietudine che il vecchio René avrebbe di certo apprezzato