Milano, 22 maggio 2019. Due casse, una valigia: sembra che la storia della Magnum e dei suoi protagonisti sia attraversata da sorprendenti colpi di scena. Un velo di mistero, uno strato di polvere, un pizzico di suspense… e poi l’immagine torna ad essere perfettamente nitida.

Certamente meno rocambolesca della “Mexican Suitcase” (conteneva 4500 negativi 35mm della guerra civile spagnola scattati tra il ’36 e il ’39 da Robert Capa, Gerda Taro e David (Chim) Seymour che Capa in fuga verso l’America, nell’ottobre ’39, affidò all’amico Imre “Csiki” Weiss: anche lui ebreo, prima di lasciare la Francia li consegnò ad un cileno; ritenuti perduti fino al 1995, dopo una serie di passaggi di mano, furono donati all’ICP di New York dove la valigia fu recapitata nel dicembre 2007), ma non meno intrigante è la storia della prima mostra della nota agenzia fotogiornalistica. Intitolata Gesicht der Zeit (Il volto del tempo) fu rinvenuta nel 2006 in due casse finite nella cantina dell’Istituto Francese di Innsbruck. Andrea Holzherr, responsabile per gli eventi culturali di Magnum Photos e curatrice della mostra Magnum’s first.

La prima mostra di Magnum organizzata nell’ambito di Milano Photo Festival 2019 al Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano (fino al 6 ottobre), ricorda ancora la strana telefonata che ricevette in cui si parlava di quella prima esposizione organizzata tra il 1955 e il ‘56 in cinque città austriache. Della mostra si era perduta ogni traccia, come non pensare che si potesse trattare di uno scherzo? Ma nelle due casse di metallo rivestite internamente di legno (non troppo diverse da quelle militari usate durante la Grande Guerra, solo un po’ più grandi) erano conservate 83 fotografie vintage in bianco e nero montate sui cartoni originali di diversi colori e numerate sul bordo inferiore. Ripulite dalla polvere e dalla presenza di muffe, queste immagini hanno ripreso a viaggiare (benché la mostra non fosse stata originariamente concepita per essere itinerante) portando con sé, oltre alla testimonianza di un segmento storico-temporale ben definito, un messaggio ben chiaro ai fondatori della Magnum: difendere “sia il valore della foto come documento sia il valore artistico degli scatti dei fotografi dell’agenzia”, come scrive Holzherr nel catalogo pubblicato da Silvana Editoriale.

Gli otto servizi fotogiornalistici di Magnum’s first sono interessanti per più di una ragione: due recano la firma dei fondatori Robert Capa (1913-1954) e Henri Cartier-Bresson (1908-2004) che nel ’47, insieme a Seymour, Rodger e Vandivert, diedero vita a quella che sarebbe diventata la più importante agenzia fotogiornalistica al mondo. Sono di Capa le tre fotografie stampate postume che raccontano la vitalità di un momento di una festa basca a Biarritz, nel sud della Francia, datate 1951; il secondo, invece, è presente con una selezione della sequenza del Mahatma Gandhi. Cartier-Bresson immortala momenti preziosi della quotidianità di Gandhi a Birla House, fotografando anche la fine del suo digiuno. Era in India per documentare il difficile momento che viveva il subcontinente all’indomani dell’indipendenza con l’inasprimento del conflitto tra indù e musulmani che portò il 30 gennaio 1948 – proprio il giorno dopo aver realizzato quegli scatti – all’assassinio del Mahatma. Inaspettatamente testimone di un momento epocale, il fotoreporter si sofferma anche sulle fasi del commiato del popolo indiano al padre della patria, all’annuncio da parte di Nehru della sua morte, alla pira lambita dalle fiamme e alla dispersione delle ceneri lungo il Sumna River a Delhi.

La mostra prosegue con gli scatti di Marc Ribaud (1923-2016) sui villaggi della Dalmazia tra Vrlika, Spalato e Dubrovnik (si intravede anche il volto di Tito ritratto su un cartellone) e quelli viennesi di Erich Lessing (1923-2018): le immagini sono esposte seguendo le istruzioni originali dattiloscritte sui fogli esposti al Museo Diocesano insieme alle due casse, al testo di presentazione della mostra, ai cartellini con i nomi dei fotografi e alla locandina. In particolare le bellissime foto di Werner Bischof (1916-1954) riflettono la poetica del fotografo svizzero che va al di là della descrizione del luogo/evento – che sia Cuzco, Bombay o Kyoto – orientate sempre in una direzione personale che arriva ad essere lirica senza essere edulcorata. Interessante anche il reportage del ’54 di Ernst Haas (1921-1986) sul set del kolossal hollywoodiano La regina delle Piramidi (1955) nelle cave di pietra di Assuan. Le quattromila comparse locali non sembrano troppo diverse dalle rappresentazioni degli schiavi dell’Antico Egitto affranti dalla fatica, dal caldo, dalle tempeste di sabbia e sottoposti anche alle rigide regole del Ramadan.

Immagini che furono pubblicate su Life nel dicembre 1954, anticipando l’uscita del film nelle sale. Due parole ancora sulla figura del francese Jean Marquis (1926) con il suo approccio umanista che si unì all’Agenzia Magnum dal 1953 al ’56-’57. Sua moglie era Susie Fisher, cugina di Robert Capa che aveva apprezzato molto gli scatti del fiume Deûle grazie ai quali Marquis fu accettato nella Magnum. Per l’agenzia fotogiornalistica egli firmò nel ’54 anche il reportage ungherese esposto nell’ambito di Magnum’s first e pubblicato nel novembre dello stesso anno sul New York Times Magazine, forse realizzato proprio con la Leica acquistata di seconda mano da Cartier-Bresson. Del gruppo faceva parte anche l’austriaca Inge Morath (1923-2002), seconda moglie di Arthur Miller che conobbe nel 1960 sul set di The Misfits dove era stata inviata dalla Magnum. Morath (a lei è stata dedicata la prima grande retrospettiva italiana Inge Morath.

La vita. La fotografia, a cura di Brigitte Blüml-Kaindl, Kurt Kaindl e Marco Minuz alla Casa dei Carraresi di Treviso, fino al 9 giugno), unica donna del gruppo, è l’autrice delle dieci fotografie pubblicate nel ‘53 dalla rivista Holiday: un ritratto di una fetta di società londinese completamente cristallizzata nel tempo. Tra Curzon Street, Burlington Arcade e Bond Street le signore dell’aristocrazia indossano abiti dal sapore Belle Époque con i loro cappelli con la veletta, i guanti e le volpi intorno al collo. Icona del conservatorismo inglese è Lady Eveleigh Nash davanti a Buckingham Palace Mall (lo scatto è nelle collezioni della Scottish National Portrait Gallery di Edimburgo) che ricorda la ben più giovane signora immortalata nel 1911 da Jacques Henri Lartigue al Bois de Boulogne. Tuttavia il dinamismo catturato da Lartigue che si traduce anche in uno slancio verso il futuro, nella raffinata inquadratura di Morath realizzata quarantadue anni dopo non è che l’emblema di una visione anacronistica della vita, anche un po’ surreale.