Si intitola Alessandro Magnasco (1667-1749) Gli anni della maturità di un pittore anticonformista la mostra di pezzi sceltissimi aperta a Genova, nei Musei di Strada Nuova, fino al 5 giugno. Ventitré opere ripercorrono l’ultimo ventennio di attività di quest’artista, uno dei grandi della pittura europea del Settecento. Non certo uno sconosciuto, visto che fu tra i primi artisti genovesi a essere apprezzato e ricercato: già nel 1914, infatti, una celebre casa antiquaria di Parigi gli riservò una «personale», mostrando come il mercato talvolta (e non di rado) preceda i critici nel captare il valore di un pittore e nel decretarne il successo, che per Magnasco si consolidò con la monografia di Benno Geiger, uscita nel 1949. In anni più vicini a noi gli studi su di lui si sono moltiplicati, specialmente a opera di Fausta Franchini Guelfi, massima esperta dell’artista, che della mostra oggi a Genova è la curatrice, e Milano, che fu la sua seconda patria, in termini tanto biografici quanto culturali, gli ha dedicato nel 1996 un’imponente esposizione monografica, estesa a tutti gli aspetti, le implicazioni e i luoghi significativi del suo percorso artistico.

Fu un pittore originale e inquieto, come tanti altri in quel secolo vivacissimo, ma come non molti (o non molti in modo così coerente e conseguente) incuriosito da scenari e personaggi di ‘margine’ e di ‘dissenso’; fu capace di mantenere sulla società del suo tempo uno sguardo analiticamente critico e di dipingerne non tanto le luci, ma soprattutto le ombre, quando non addirittura le tenebre, i fantasmi e, più che le certezze consolatorie, i dubbi.

Si capisce, perciò, come mai nel 1949, in una Genova che, ancor devastata dagli effetti delle bombe della guerra mondiale, ricostruì e riallestì subito i propri musei, Palazzo Bianco fu inaugurato proprio con una mostra dedicata a questo artista: lo si intese come portatore di uno sguardo critico, e perciò moderno, su un secolo in cui venivano maturando, da un lato, i germi di una nuova civiltà e di un pensiero ‘liberato’, antiautoritario (la «Civiltà dei Lumi»), e, dall’altro, spinte inedite di rigenerazione sociale e politica sfociate in rivoluzione industriale e politica. Alessandro Magnasco era o sembrava, insomma, un precursore di tutto ciò e, perciò, quasi un prototipo dell’artista contemporaneo, coinvolto nella dialettica civile del suo tempo e capace di gettare su di esso uno sguardo ‘laterale’ e scevro di pregiudizi. Come le scelte di museologia messe in atto in Palazzo Bianco da Caterina Marcenaro e Franco Albini rompevano con i criteri museali ottocenteschi, così si vedeva in Magnasco il simbolo di un’esigenza simile di catarsi culturale. E, quasi, inaugurare una tipologia umana e professionale, quella dell’artista engagé, da lì in poi d’attualità.

Comprensibile, in quel frangente postbellico, ma ideologica e discretamente abusiva dal punto di vista storico-artistico, non è certo una prospettiva del genere che ha animato la realizzazione di questa mostra. Allestita in prima battuta a Parigi, è nata da una collaborazione tra pubblico e privato, vale a dire tra Piero Boccardo, direttore dei Musei di Strada Nuova, e Maurizio Canesso, proprietario dell’omonima galleria parigina e mecenate dell’iniziativa; qui a Genova ha avuto, poi, in Pierluigi Pizzi un magnifico e rigoroso «regista d’immagine»: le tre sale del museo che ospitano i quadri, in un palazzo che è «bianco» di nome e di fatto, sono state tinte per l’occasione in un dosatissimo giallo-senape che lega perfettamente i quadri e ne valorizza tanto gli scuri della preparazione e delle architetture quanto i chiari e le improvvise, abbaglianti accensioni cromatiche (i rossi, i bianchi soprattutto, gli azzurri, i rosa, ma anche i verdi e perfino i bruni e i neri) di una maniera pittorica caratterizzata da figure piccole, mobilità, tensioni gestuali talvolta estreme.

La scelta delle opere è ispirata – oltre che a quello della congruità cronologica, ovviamente – a un criterio rigoroso di qualità, che non ammette eccezioni: nessuna caduta, e nessuna scelta di comodo. Variatissimi i formati: tele minime, quadri da stanza e due grandi opere, pezzi unici davvero capitali, ognuna a suo modo eterodossa, cadenzate una a metà e una a suggello del percorso: il Furto sacrilego e il Trattenimento in un giardino d’Albaro.

L’itinerario lungo gli ultimi due decenni della sua vita principia con quel Pittor pitocco che è, insieme, un autoritratto simbolico, una dichiarazione di poetica e un tributo a una parte delle sue fonti, i bamboccianti nordici e Callot: scene «basse», «abiette», «ignobili», in apparenza contrapposte ai suoi interventi nelle solenni composizioni rovinistiche di Clemente Spera, che popola di neomanieristiche, spiritate figurette, ben diverse dalle rassicuranti, aeree mitologie della pittura, anche genovese, coeva. E ci sono poi i picari avvinazzati che addestrano una gazza al canto in uno scenario da taverna; ci sono i soldati, straccioni come le loro donne e i loro bambini, che dormono pesante, ancora la pipetta tra le dita.

La religione è una pratica sociale, collettiva, a più dimensioni: quella dei popolani che un prete guida alla preghiera presso una cappella di campagna contro uno sfondo esplosivo di alberi, nubi e cielo; o quella dell’istruzione religiosa dei fanciulli, inscenata in una vasta chiesa gotica, in cui alcuni highlights rossi guidano l’occhio dello spettatore nei punti prestabiliti dall’artista. Almeno in un quadro di soggetto religioso (uno dei due che si sanno da lui eseguiti per chiese) Magnasco affronta il tema del miracolo, ed è lo spunto per una delle scene più fantasmagoriche e terribili che mai un pittore italiano abbia evocato: il Furto sacrilego. Illustra un episodio del 1731: entrati in una chiesa, i ladri non riescono a rubar nulla per alcuni prodigi (luci intermittenti, misteriose presenze nerovestite, paurosi rumori) attribuiti ai morti lì sepolti. Tutto qui. Ma Magnasco ne fa un film dell’orrore: spietata, la Madonna suscita una sarabanda di scheletri che scatenano contro i malcapitati ladri una controffensiva selvaggia mentre indica una forca, il castigo che attende i profanatori.

Nei dipinti che seguono, pur diversi per soggetto, genere, ambientazione, la tensione figurativa non si abbassa: nella stravagante coppia di tele in cui un Omaggio a Plutone, dio degli Inferi, si accompagna a un Funerale ebraico con tre seppellitori fermati in un elegante, simmetrico gestire al centro della scena; o in quella in cui due santi, Agostino e Antonio da Padova, pericolosamente recatisi sulla riva di mari tempestosi incontrano un bimbo o predicano ai pesci. O nel Seppellimento di un monaco trappista, ritmato dalle stupende figure dei religiosi, modellate, più che dipinte, in bianchi luminosissimi: una composizione tanto impressionante che perfino i vescovi di marmo che si affacciano a mezzobusto dai clipei del loggiato di sfondo si sporgono e si volgono a guardarla.

Quasi paradossale è la trasfigurazione «epica» di questa scena, anche nello stile: un viraggio che ritorna, con un surplus di commozione partecipata, quando Magnasco descrive episodi di vita dei frati cappuccini; perfino lo stile cambia, e diviene più sciolto, «grazioso», allorché affronta, con evidente piglio critico, il tema della rilassatezza di costumi delle monache di elevata condizione sociale: parlatori con musici e cicisbei, celle come suntuosi boudoirs, giardini in cui tutto si fa, fuorché pregare.
Il Trattenimento in un giardino d’Albaro chiude la mostra. E non può essere che così, perché questa magnifica composizione orizzontale perfino nel formato si stacca dall’ordinario. L’intrattenimento ha luogo sul proscenio, delimitato da una bassa quinta. Il paesaggio, dietro, sembra il dipinto di un dipinto: un fondale di teatro, quasi, che riproduce però un panorama naturale, topograficamente fedele. La civiltà della conversazione, del cioccolato e del caffè, su cui – pare a noi, col senno di poi – sta calando il sipario della Storia. Ma ci vorranno cinquant’anni, e il pittore, che in basso a sinistra sta disegnando la scena per preparare il quadro, avrà tempo per lavorare bene.