Preferite gli spaghetti allo scarpariello o i mezzanelli allardiati, il sartù di riso o la zuppa di soffritto? Amate le castagne di Montella o le olive nere di Gaeta, le albicocche del Vesuvio o i fichi del Cilento? Questi prodotti della terra e tanti altri piatti storici della cucina napoletana sono i protagonisti di Magna (acronimo che sta per Mostra Agroalimentare Napoletana), una straordinaria mostra interattiva nata in tempo di Expo che affronta il tema dell’agricoltura e della gastronomia napoletana dal punto di vista storico, scientifico e sociale svelandone tutti i segreti, dall’origine al piatto finito. Un appuntamento imperdibile per tutti i golosi in circolazione e per chi vuole interrogarsi sul cibo, sulla necessità di sfamare un numero crescente di persone sul pianeta e di mettere a frutto le conoscenze e le tecniche sedimentate nel tempo. Il Complesso Monumentale di San Domenico Maggiore a Napoli (Vico San Domenico Maggiore, 18), ospita fino al 10 gennaio 2016 la rassegna, ideata e curata dall’architetto Marco Capasso, prodotta dall’Associazione «Guviden – I semi dell’amore», realizzata in collaborazione con il Comune di Napoli, che narra la storia e le caratteristiche scientifiche e sociali di una delle cucine più famose al mondo e tra le più antiche (ha almeno tremila anni di vita ma i reperti di Cuma e Ischia spostano la data molto più indietro). L’intento è quello di valorizzare il territorio regionale e le sue vivande, di raccontare le tradizioni attraverso la tavola e di far conoscere le origini di una pietanza prima ancora di gustarla. Un tributo multimediale alla cultura gastronomica napoletana, dall’orto alla pentola, dai prodotti tipici alle ricette antiche e moderne, dal mercato alla dieta mediterranea. Ad illustrare le specialità del territorio, celebri in tutto il mondo, non saranno solo cuochi ma anche agronomi, antropologi, chimici e sociologi, con un occhio critico ai temi del mangiar sano e della sostenibilità ambientale. «Magna» è voce del verbo napoletano magnare, terza persona presente di quello che in italiano è soltanto mangiare e che a Napoli non indica un bisogno ma un’arte: «magnà» (mangiare) è un verbo ma è anche il fine e l’oggetto di un’azione. Non esiste vocabolo che traduca in napoletano la parola «cibo» o «food», Napoli non fa spreco di vocaboli: dice «o’ Magnà», riusa lo stesso verbo mettendo avanti l’articolo, in questo modo pensa il cibo non come cosa ma come prassi. Non si concentra sull’idea astratta quanto sul concreto bisogno di nutrimento, sulla agognata pratica quotidiana.
L’allestimento, suddiviso in cinque sale, si snoda lungo corridoi e ampi spazi del manufatto medioevale, restaurato alcuni anni fa, e prevede un percorso multimediale che parte dalla terra e arriva fino al piatto in tavola. Si comincia dalle origini, ovvero, dalle materie prime, con i cassoni delle erbe aromatiche, dal timo alla menta, dal rosmarino all’alloro, i tipici «odori» della cucina napoletana fino ad arrivare al finocchio, ai ravanelli e ai peperoncini rossi piccanti (la nostra guida, l’agronomo calabrese Robertiello, ne decanta le innumerevoli proprietà, per le vitamine contenute, per l’efficacia nell’ attivare il circolo venoso e capillare, importante antiossidante) attraverso un percorso sensoriale costituito da aiuole realizzate per annusare, toccare e guardare i frutti della terra, con piccoli ulivi, alberelli d’arance e limoni di Sorrento. Alla natura segue la città con il tipico mercato, ricco di mercanzie di ogni tipo in bella mostra, ricreato dalla maestria degli artigiani del presepe classico napoletano. Di Virgilio e Ferrigno hanno realizzato in terracotta ed in stile ‘700 nove banchi raffiguranti antichi mestieri legati alla vendita di cibo che normalmente avveniva per strada o all’interno di botteghe. Riproducono gesti quotidiani ed antichi sapori di una capitale del gusto. Nel presepe napoletano ogni bottega rappresenta un mese e la somma dei commerci rappresenta l’anno, così il cibo diventa allegoria del tempo. Statuette (30-40 cm d’altezza), estremamente accurate e verosimili, in perfetto stile da venditori ambulanti d’epoca. Con una illuminazione che passa dall’uno all’altro, un breve ritratto delle caratteristiche del rivenditore, le note e le voci famose che accompagnano la mercanzia, con dissolvenze colorate sulla parete.
Chi v’o vevereee! Fredda, fredda, manc’a neve! Da quello più umile, quello che vendeva un semplice bicchiere d’acqua, perché anche una buona bevuta serviva ad alleviare le difficoltà della giornata, l’acquafrescaio, con le sue numerose proposte: l‘acqua addirosa, ossia profumata, aromatizzata solitamente al profumo di vino, l‘acqua annevata, ovvero rinfrescata con blocchi di ghiaccio che venivano dal Monte Faito nelle botti in cui veniva conservata, l‘acqua suffregna, acqua minerale sulfurea del rione Santa Lucia, acqua frizzantina, carica di sali minerali, color marroncino e dall’inconfondibile odore di zolfo, acqua miracolosa per sapore (qualcuno più anziano ricorderà il Telesino, la bottiglietta di acqua di Telese, acqua ricca di sodio e di zolfo, dal fortissimo odore di uova marce ma benefica per molte malattie). Ma ce n’erano molti altri tipi che venivano venduti per usi diversi, come l‘acqua di mare, l‘acqua di fiume con proprietà curative, o l’acqua appannata che serviva per fare le polpette. L’acquafrescaio richiama persino i chioschi attuali, con gli stessi grappoli di limoni e arance, più severi rispetto a quelli dei secoli passati, il cosiddetto banco dell’acqua, destinato a dissetare e ritemprare gli avventori , con attrezzi per le spremute e sciroppi di vario tipo, dove venivano poste in bella mostra ‘e mummarelle, gli orciuoli, splendide anfore in terracotta che possedevano la caratteristica di conservare sempre fresco e godibile il liquido in esse contenuto: l’acqua d’’e mummarelle, il prezioso liquido sulfureo, ingrediente principale della pozione magica al limone e bicarbonato, molto richiesta in tutte le stagioni. Ogni commerciante di strada meriterebbe una lunga descrizione, coi suoi banchi di legno, antenati di quelli dove vengono disposte le mercanzie ancora oggi. Per comodità ricordiamo ‘O chianchiere (il macellaio), ‘O pesciavinnolo (il pescivendolo), ‘A castagnara e ovajola (la venditrice di castagne e uova, entrambe tenute al caldo, sotto la paglia), ‘O casadduoglio (il venditore di olii e formaggi), ‘O maccarunaro (venditore di spaghetti e pasta già cotta), O’carnacuttaro (il venditore di trippa), ‘A cozzecara (venditrice di cozze e altri molluschi e crostacei), ‘A Fruttajola (frutta di stagione).
Altra sala e siamo arrivati direttamente «nelle case», in quella tradizione fatta di menu per i vari giorni della settimana e pietanze familiari, tramandate dai nonni e dai genitori che abitualmente vivevano insieme (con fratelli e sorelle non sposate) fino alla metà degli anni sessanta quando il nucleo tradizionale allargato va leggermente in crisi. Sulla falsariga di un quaderno di ricette scritte a mano che si tramandava da madre in figlia (come il corredo matrimoniale e le posate d’argento, le stoviglie di Vietri, le teglie d’alluminio, ecc.), da nonna a nipoti, con le inevitabili prove sul campo in occasioni di ricorrenze familiari, cene tra amici, pranzi delle feste natalizie, ecco grandi pannelli con i piatti tipici e i menu per i vari giorni della settimana. La zuppa di soffritto o zuppa forte, un piatto assai saporito con ingredienti poveri, fatto con le interiora di maiale (polmone, trachea, cuore, milza, reni) che vengono soffritte nella sugna, sfumate al vino rosso e mescolate con rosmarino e alloro, cuocendo lentamente nel concentrato di pomodoro. Si mangia da solo o viene usato anche per condire la pasta. Generalmente il suo giorno era il sabato che prevedeva anche cotoletta di provola, papacelle (peperoni bassi e tondi) in padella e melograni. Invece lo scarpariello deve il suo nome ai calzolai, gli scarpari, il suo giorno quindi era il lunedì (il giorno di chiusura della bottega) col riutilizzo delle cose rimaste, la pasta in padella con due formaggi, pecorino e parmigiano, e il sugo fresco o resti di ragù. Due sono i sovrani assoluti della cucina napoletana: il sartù e il ragù, degni di re Artù. Il primo è un timballo di riso, stracarico di piselli, porcini, uova, mozzarella, carne macinata, nato in Francia coi monsù, i famosi cuochi trasferiti a Napoli nelle famiglie nobiliari, ed è uno dei piatti più ricchi e complicati della gastronomia napoletana. Il ragù è un piatto molto antico che deriva dalla cucina popolare francese, diventato pietanza simbolo della domenica in famiglia. Per cucinare questa celebre salsa, che deve pippiare (cuocere) a fuoco lento per svariate ore, coi pezzi di carne che insaporiscono il tutto. Un piatto simbolo di suprema bontà (abitualmente delegato alla persona più anziana del focolare) tanto che il momento magico del giorno festivo era poter intingere il proprio pezzo di pane nel ragù scuro, denso e profumato. Dobbiamo ancora ricordare i falsi sughi, geniale invenzione delle classi popolari partenopee. Dove l’ingrediente principale del sugo manca e quindi vengono detti «fujuti». Il più famoso è lo spaghetto a vongole «fujute» dove si abbonda di prezzemolo e olio, riproducendo le condizioni tipiche del piatto coi bivalve ma senza i molluschi. Ecco la proiezione sul soffitto di ortaggi giganti in movimento e lavagne interattive con cenni sui prodotti tipici napoletani e video sulle terre di coltivazione, sulla cucina intesa come elaborazione del prodotto nel piatto e sui vigneti campani con uno schedario virtuale in cui sfogliare tutte le bottiglie di qualità regionali. I video sono tutti inediti e realizzati in esclusiva per la mostra.
Nella quarta sala, «Mangiare con gli occhi, cibo e arte», si viene accolti da una grande tela di Francesco Celebrano raffigurante Bacco e le stagioni, nell’antico refettorio di San Domenico Maggiore, dove ci sono altri quadri del seicento e settecento con trionfi di frutta e leccornie, provenienti da una collezione privata. Lo spazio successivo è suddiviso in due aree, una contraddistinta da pannellature verdi con quadri di artisti dell’epoca e contemporanei, tutti rigorosamente napoletani, e che rimarranno per il tutto il periodo della mostra, ed un’altra da pannellature blu, con opere a ricambio mensile, su cui è esposta una personale del maestro Ernesto Tatafiore. L’area del chiostro sarà invece dedicata agli artisti più giovani e ad esposizioni fotografiche. Un’attenzione privilegiata merita la quinta sala, «la camera del buon consiglio», ove i visitatori, attraverso la proiezione di due video e per mezzo di una lavagna interattiva, potranno apprendere i benefici apportati dalla dieta mediterranea, autentico toccasana codificato dallo scienziato americano Ancel Keys. Ascoltare, toccare, annusare e assaggiare sono le parole chiave della mostra che utilizza un approccio multidisciplinare coniugando scienza, sociologia e gastronomia per unire rigore scientifico e buona cucina. In concomitanza con la mostra sono previste degustazioni, seguite da incontri e spettacoli (dalle 20 alle 24) Gli appuntamenti speciali proseguiranno fino a gennaio con approfondimenti sulle diverse eccellenze campane come la pasta di Gragnano, la mozzarella di bufala Dop, i distillati e i dolci di Natale . L’idea è farla diventare una esposizione permanente dell’agroalimentare napoletano. La mostra sarà visitabile tutti i giorni dalle 10 alle 19 al prezzo di 7 euro.