Esistono oggetti che, nonostante una storia personale le cui origini risalgono all’ormai lontana stagione d’oro del design italiano (coincisa con gli anni a cavallo della metà del ventesimosecolo), rimangono incontrastati e perduranti emblemi della modernità realizzata in serie. Ne esistono altri che, a dispetto di un debutto in sordina o di una prematura uscita dai cataloghi di produzione, hanno inciso sottotraccia l’immaginario di intere generazioni per poi riesplodere, quasi improvvisamente, in tutto il loro essere fonte d’ispirazione o venerazione contemporanea. Esistono, dunque, oggetti che possono essere indagati attraverso la lente del loro profondo legame con il tempo e, nello specifico, con un concetto generalmente trascurato dalla critica di settore: la propria durata, intesa sia come aritmetica somma dei periodi in cui sono rimasti a disposizione del grande pubblico, sia – soprattutto – come capacità di resistere al naturale processo del loro declino, fisico o di figurazione progettuale. È questa l’interessante ottica da cui muove una piccola ma preziosa mostra a Milano: Fuori catalogo. Cinque fotografi interpretano cinque prodotti di Vico Magistretti (a cura di Anniina Koivu e Francesco Zanot, Fondazione Magistretti, fino al 22 febbraio 2018).

Cinque prodotti disegnati dal maestro milanese, alfiere di quella che fu definita da Vanni Pasca «l’eleganza della ragione», vengono riletti in chiave diacronica, attraverso l’esposizione di eterogenei materiali che ne tracciano un racconto sospeso tra storia e cronaca, da un lato, e tra disciplina progettuale e gusto estetico dell’odierna società, dall’altro. Ciascuno di essi è infatti descritto attraverso tre tipologie di materiale: l’oggetto in se stesso, quando disponibile, presentato alla stregua di una vera e propria opera d’arte; il documento archivistico, sotto forma dell’enorme quantità di disegni e foto d’epoca (scattate da professionisti o dallo stesso designer), conservati dalla Fondazione Magistretti e consultabili in quattro antologiche raccolte, realizzate per l’occasione; la rilettura contemporanea. La mostra nasce dalla collaborazione tra la Fondazione e l’Ecole Cantonale d’Art de Lausanne, luogo di formazione dei giovanissimi fotografi cui è stato chiesto di attualizzare l’anima della celeberrima sedia Selene (prodotta da Artemide dal 1969 fino alla metà degli anni ottanta), della lampada da ufficio Ekon (disegnata per Oluce, sul mercato dal 1977 al 1983), della libreria Bath (Alias, 1979-’81), della poltroncina Pan (commercializzata dalla Rosenthal a partire dal 1980, per un imprecisato lasso temporale) e del tavolo Edison (venduto da Cassina tra 1985 e 1988).

Cinque prodotti che, certo, sono espressione della straordinaria poetica di chi li ha disegnati e dell’età che ne ha determinato la nascita. Basti pensare, per esempio, alle similitudini tra Pan e la sedia post-moderna First di Michele De Lucchi per Memphis (ben descritti nell’agevole libretto che accompagna l’esposizione), che a loro volta affondano le proprie radici nell’assemblaggio di geometrie elementari di cui è pervasa l’opera del comune maestro Charles Rennie Mackintosh.

Cinque prodotti, oggi tutti fuori catalogo, che sono perciò anche espressione delle molteplici ragioni che spingono un’azienda a cessare la produzione. Di un’icona come Selene, per esempio, capostipite della ricchissima e popolosa famiglia di sedute in monoscocca plastica made in Italy, tanto avanguardistica da costringere progettista e fabbricante a inventarsi un sistema di realizzazione che, con il miglioramento tecnologico, è divenuto economicamente insostenibile. O di un potenziale best seller come Bath e la sfortunata serie Broomstick di cui era componente: una collezione celebrata da notissimi critici e colleghi di Magistretti (Ingo Maurer, tra gli altri) per le sue caratteristiche di semplicità, modularità e trasportabilità; quindi, il non plus ultra del mobile moderno, che però lascia irrisolta la questione della stabilità di alcuni pezzi determinandone l’insuccesso tecnico e commerciale. O di Ekon, che condivide con la più nota e preziosa serie Chimera (ma anche con la stessa Selene) l’ispirazione al sottile foglio di carta piegato a formare un’anima a «S»; ora inclinato in orizzontale a illuminare, in maniera diretta, il piano della scrivania e, indirettamente, l’intero ambiente di lavoro. Una forma semplificata, proprio ai fin della produzione industriale, che però non ottiene il favore di pubblico.

Cinque prodotti che, attraverso gli occhi dei cinque fotografi – Maxime Guyon, Quentin Lacombe, Calypso Mahieu, Nicolas Polli, Jean-Vincent Simonet – esprimono quel «surplus di visionarietà» che i curatori della mostra individuano come tratto saliente nell’opera di Magistretti.