Vince la destra, perde la sinistra. È facile, purtroppo, sintetizzare il risultato delle elezioni della componente togata del Consiglio superiore della magistratura svoltesi domenica e lunedì. Lo spoglio avvenuto ieri ha dato un responso inappellabile innanzitutto nella sfida più attesa, quella per i due posti fra i giudici della Cassazione: primo con 2522 voti la star del populismo mediatico-giudiziario Piercamillo Davigo, leader della nuova corrente «grillina» di Autonomia e indipendenza (Ai), seconda a quota 1761 Loredana Miccichè dello storico gruppo conservatore di Magistratura Indipendente (Mi). Quello di cui lo stesso Davigo era membro fino alla clamorosa scissione da lui promossa nel 2015 in polemica con l’eterodirezione della corrente da parte di Cosimo Ferri, divenuto nel frattempo sottosegretario alla giustizia.

Il dato è davvero eclatante: rispetto alle precedenti elezioni, il ribaltamento è totale. Restano fuori Carmelo Celentano della centrista Unicost (1714 voti) e Rita Sanlorenzo della progressista Area, in ultima posizione con 1528 preferenze, cioè gli esponenti di quelle correnti che nel 2014 avevano ottenuto, rispettivamente, la prima (con 2491 voti) e la seconda posizione (con 2184).

Colpisce in particolare l’esclusione di Celentano, perché i centristi da sempre mietono i consensi maggiori: ancora due anni fa, nelle urne per gli organi dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), furono primi con oltre 2500 voti alla loro lista.

Più difficile era l’impresa di Sanlorenzo: il trend di Area era in discesa, ma i pronostici la davano in partita per il secondo posto. E invece le sono mancate addirittura 350 preferenze rispetto al bacino di partenza rappresentato dai partecipanti alle primarie del suo gruppo: segno che c’è stato un problema di «tenuta» di Area, compagine frutto dell’intesa fra due correnti progressiste, Magistratura democratica e Movimento per la giustizia. Con quei voti, Sanlorenzo sarebbe stata eletta.

Per ora nessun commento ufficiale da parte dei dirigenti di Area: «Aspettiamo il quadro completo dei risultati». Lo si avrà oggi, quando terminerà lo scrutinio. Fra i giudici di merito (cioè primo grado e appello) lo spoglio si è interrotto a metà, e la tendenza sembra confermare l’ottimo risultato di Mi e l’arretramento di Area, mentre i davighiani festeggerebbero l’en plein: pur senza ripetere l’exploit del leader in cifre assolute, piazzerebbero entrambi i candidati.

Ma può ancora cambiare tutto, fanno sapere gli addetti ai lavori: gli scarti sono minimi. Ultimo dato sarà quello dei pm: quattro in lizza per quattro posti, quindi nessuna suspance sugli eletti ma occhi puntati sui rapporti di forza in termini di cifre assolute. Gli equilibri del nuovo Csm comunque già si profilano: primo gruppo dovrebbe essere la destra di Mi con 5 consiglieri, poi gli altri tre gruppi. Per i progressisti è comunque un crollo: nella migliore delle ipotesi è a -3 rispetto al 2014. Le due destre potrebbero fare invece +5 a confronto con il dato della sola Mi di quattro anni fa.

Non servono arti divinatorie per immaginare che fra le «toghe rosse» da oggi si aprirà la proverbiale «discussione franca» per capire gli errori commessi. Forse ha pesato l’identificazione fra Area e Partito democratico che, a torto o ragione, una parte dei magistrati ha sicuramente fatto. È stato l’ex premier Matteo Renzi (quello del «brr, che paura!» rivolto all’Anm) a volere, nella passata legislatura, misure vissute da molti giudici e pm come punitive, dalla responsabilità civile al taglio delle ferie. Davigo ha saputo cavalcare il malcontento, ergendosi a paladino del «magistrato semplice» contro le «vecchie» correnti ritenute incapaci di difendere l’onore della professione dagli attacchi della politica (di centrosinistra). Il suo messaggio corporativo e anti-casta ha fatto breccia.