Si riparla di «conflitto» tra magistratura e politica. «I politici rubano più di prima, semplicemente hanno perso anche il senso della vergogna» dice il presidente dell’Associazione nazionale magistrati. «I giudici imparino a parlare solo con le sentenze e ricordino che le informazioni di garanzia fasulle e le indagini a orologeria hanno distrutto la vita di tante persone per bene» replica il presidente del Consiglio. E al gioco di chi ha ragione e chi torto si allineano acriticamente, con poche eccezioni, politici e magistrati. Ma, a ben guardare, i problemi sono più seri e complicati.
Primo. Che il sistema politico si regga su un malcostume intollerabile e senza precedenti è, al di là delle responsabilità individuali, un fatto acclarato. Non c’è bisogno delle parole di Davigo per vedere quel che è sotto gli occhi di tutti: il crollo dell’etica pubblica, la corruzione sistemica, la strumentalizzazione a fini privati di uffici pubblici, la mercificazione finanche della funzione legislativa, la prevaricazione mafiosa, l’evasione fiscale come metodo, la regola dei condoni, la pretesa di impunità per chi ha potere. Ciò – la cosa è altrettanto evidente – provoca danni economici e morali ben maggiori di tutta la criminalità comune messa insieme. Non sono necessarie le parole e le indagini dei magistrati. Basta guardarsi intorno, leggere o sentire i (pochi) servizi del giornalismo d’inchiesta, misurare la percezione dei cittadini. E ciò investe a pieno titolo anche il governo in carica, come dimostra quel che si agita intorno a ministri ed ex ministri di primo piano. Prendersela – come fa il presidente del Consiglio – con chi lo denuncia o con le inchieste di questa o quella procura è solo un diversivo furbesco e un comodo alibi per distrarre dalla realtà.

Secondo. La questione, negata o elusa da Renzi e dai suoi supporter (politici e giudiziari), è tutta politica. Come affermava, già nel luglio 1981, Enrico Berlinguer: «La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano». Questo è il punto. Non sono le indagini e le informazioni di garanzia che devono provocare dimissioni e condizionamenti della politica. Sono i fatti. Il problema non è (solo) la commissione di reati da parte di questo o quell’esponente politico ma (anche) il suo contesto di riferimento, i favori elargiti, i conflitti di interesse realizzati, i vantaggi economici conseguiti e via elencando, a prescindere dalla loro rilevanza penale. A meno di non ricorrere a paradossi come quello di Bettino Craxi nell’intervento alla Camera del 3 luglio 1992: «Si è diffusa nel Paese, nella vita delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni, una rete di corruttele grandi e piccole che segnalano uno stato di crescente degrado della vita pubblica se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale»… Il «nuovo» di Renzi sa molto d’antico!

Terzo. «Noi siamo garantisti», continua il presidente del Consiglio. Anche quest’affermazione, peraltro, sa d’antico. Non certo per ragioni di principio, ma perché il garantismo (come ci ricorda Dario Ippolito nel recente Lo spirito del garantismo, Donzelli, 2016) è tutt’altra cosa da un sistema che gradua le regole a seconda dello status degli imputati (con conseguente coesistenza di due codici reali, uno per il «briganti» e uno per i «galantuomini») e che, parallelamente, proclama l’onnipotenza della maggioranza, l’incontrollabilità della politica, l’assenza di limiti per il mercato. Questo garantismo selettivo, che si arricchisce ogni giorno di nuove pagine (basti pensare, da ultimo, alla mancata depenalizzazione del reato di «immigrazione clandestina» e all’aumento a dismisura delle pene per l’omicidio colposo stradale) non ha nulla a che vedere con il modello garantista che, tra l’altro, nasce – è bene non dimenticarlo – più che a tutela di chi detiene il potere a garanzia della libertà personale dai possibili abusi dei titolari di quel potere.
Quarto. C’è, dunque, molto di vero nelle parole di Davigo. E tuttavia il suo intervento non convince e sa, anch’esso, d’antico. Non perché a parlare sia un magistrato, ché giudici e pubblici ministeri hanno il pieno diritto di esprimersi (salvo, ovviamente, sottoporsi a loro volta ai giudizi e alle critiche della politica e della pubblica opinione). Ma per il suo essere monco, carente di una parte fondamentale. Alla crisi del sistema in atto concorrono, infatti, anche pubblici ministeri e giudici: per diffuse prassi antigarantiste, per un frequente uso eccessivo e strumentale della custodia cautelare (frutto di una impropria «cultura delle manette»), per interventi a piedi giunti sulle manifestazioni del conflitto sociale, per interpretazioni formalistiche e illiberali e via elencando. In questo quadro, accusare (giustamente) la politica non basta se non si accompagna a un’autocritica di ciò che non funziona nella giustizia, anche per colpe dei magistrati. Tacere sul punto e indulgere a un manicheismo un po’ surreale toglie forza e credibilità alla denuncia e non favorisce un’uscita in avanti dalla crisi. Purtroppo, peraltro, quel silenzio non appartiene, nella magistratura, solo a Davigo.