Sulla necessità della responsabilità civile dei magistrati si era già pronunciata con un referendum, e a larghissima maggioranza, la volontà popolare e dunque sul merito la questione è chiusa. Il principio del «chi sbaglia paga» del resto fa parte del bagaglio culturale giuridico delle nostre codificazioni civili e penali e non c’è chi vi possa opporre motivazioni logiche contrarie: paga l’imputato per il reato commesso così come paga chi non onora la propria obbligazione civile volontariamente assunta o il danno ingiusto procurato ad altri.

Al merito però si accompagna sempre la regola procedurale affinché, appunto, si debba pagare solo seguendo un chiaro iter processuale e non solo perché c’è una richiesta di «risarcimento», sia essa avanzata da un pm o da un creditore. Nel sistema penale poi, si è da tempo ritenuto che il processo, in un’aula di tribunale o davanti a un giudice monocratico, sia di per sé un dramma per l’imputato e, quindi, ci sia bisogno di un filtro di ammissibilità della richiesta dell’accusa per evitare di doversi difendere da pretese palesemente infondate: era quella la funzione del fu giudice istruttore e ora è quella del gip che filtra le richieste del pm.

Nel sistema civile questo filtro di ammissibilità non previsto era però è stato escogitato per la responsabilità civile dei magistrati, data anche la peculiarità del «contesto»: trattandosi di decisioni che, comunque, debbono avere un «soccombente» (sia esso il pm o l’imputato nel caso di condanna nel processo penale che una delle parti nel processo civile), era prevedibile che il perdente tentasse una estrema rivalsa intentando un’azione di risarcimento nei confronti del decidente. Le conseguenze adombrate erano molteplici, dal paventato condizionamento dei giudici spaventati dal dover pagare di tasca propria eventuali errori di giudizio all’abnorme proliferare di procedimenti suscettibili di intasare un sistema giudiziario già sovraccarico ed inefficiente. Soffermandosi sul solo dato numerico (cinque pronunce di ammissibilità su un quattrocento richieste), bisogna riconoscere che questo filtro non ha funzionato o, peggio, si è rivelato una vera e propria barriera. Manca però una specifica ricerca sulla fondatezza delle richieste stesse, difficile e complessa e, quindi, in un Paese dal garantismo a giorni alterni, ci si è accontentati del dato numerico per accedere ad una riforma quale quella ora approvata dal Parlamento.

Da oggi in poi quindi si avrà accesso all’azione di responsabilità senza passare per le forche caudine di un preliminare giudizio di ammissibilità: su questo punto la riforma rischia di impantanarsi perché proprio la Corte costituzionale, con la sentenza con la quale aveva dichiarato ammissibile il referendum, stabiliva che nella disciplina della responsabilità civile dei magistrati erano consentite scelte plurime ma non illimitate «in quanto la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità…specie in considerazione dei disposti appositamente dettati per la magistratura (art. 101 e 103) a tutela della sua indipendenza e dell’autonomia delle sue funzioni». La Corte certo non ha parlato di «filtro» ma è come se lo avesse fatto e comunque ha anche precisato in altra sentenza (n.18/1989) che una responsabilità diretta del giudice sarebbe ammissibile «alla sola ipotesi di danni derivanti da fatti costituenti reato».

Il problema doveva essere risolto proprio sul versante del «filtro» da concepire non come una barriera ma come un argine alle liti temerarie e manifestamente infondate, così come suggerito dal Csm con il suo parere del 29 ottobre 2014. Ora di fronte ad una azione di responsabilità senza una verifica preliminare di ammissibilità e per casi che vanno ben al di là dei danni derivanti da un reato commesso dal decidente, la Corte non potrà ignorare la sua precedente giurisprudenza. La partita potrebbe riaprirsi, con ulteriore deterioramento dei rapporti tra politica e giustizia: si spera che governo e parlamento facciano degli aggiustamenti secondo Costituzione.