Enorm e e fragoroso, ambiziosissimo e altrettanto sincero, inquivocabilmente biblico eppure ancorato allo spirito del nostro tempo, il Noah di Darren Aronofsky è approdato venerdì nelle sale Usa. Dai primi dati (44 milioni in biglietti venduti) si può dire che il kolossal religioso controtendenza del regista di Black Swan sia sopravvissuto al diluvio di pubblicità negativa che ha impazzato nelle settimane prima della sua uscita. Bandito in alcuni paesi musulmani perché raffigura personaggi dei testi sacri e boicottato da alcuni gruppi di fondamentalisti cristiani perché li travisa, questo incrocio tra Titanic, La passione di Cristo, e Il signore degli anelli, arrivava bollato dall’aura del fallimento che il middle management hollywoodiano regolarmente autoinfligge (a forza di voci di corridoio, ancor prima che i film giungano in sala) agli oggetti che «osano troppo», o risultano indecifrabili a una cultura produttiva sempre più condizionata e rassicurata del déjà vu. Si tratta di un’inspiegabile censura preventiva che aveva trovato buon gioco nella reputazione di Aronofsky (giudicato un regista arrogante) e nei pettegolezzi di postproduzione secondo cui a un certo punto, disperata, la Paramount (che ha investito in Noah 125 milioni di dollari), avrebbe tolto il film dalla mani del regista per rimontarlo completamente, molto più corto, per poi restituirglielo, quando la versione rimontata ha totalizzato preview ancora più preoccupanti della precedente.

In realtà, con tutte le sue imperfezioni (ma i film di Aronofsky sono sempre così: la loro originalità confusa è parte integrante della loro purezza) la Paramount dovrebbe essere orgogliosa di Noah che, insieme a Gravity e The Wolf Street, restituisce alle Major un po’ di lustro autoriale e l’aspirazione di un cinema ad alto budget che sia però anche di ricerca, non riciclato e basta.

Certo, di momenti rassicuranti in Noah non se ne trovano molti, e nemmeno di déjà vu – ad eccezione forse della sfortunata somiglianza tra Methuselah (Anthony Hopkins), Gollum e il venerabile Yoda, e quella degli angeli caduti e trasformati in giganti di pietra con l’incredibile Hulk e i transformers (la ILM, responsabile degli effetti speciali, deve aver usato gli stessi programmi d’animazione dei film di Michael Bay…)

In un genere che offre ampi spunti per il delirio, il film di Aronofsky è infatti uno dei più eccentrici kolossal religiosi che si possano immaginare (o che siano mai stati fatti). Intanto ha una disposizione coltamente inclusiva rispetto a dottrine non cristiane e testi sacri che non siano la Bibbia, e poi condisce i quattro capitoli della Genesi a cui si ispira, di suggestioni magiche (geniale la trovata dell’incenso che addormenta tutti gli animali una volta sull’arca, cosi non si mangiano tra di loro e noi non ci pensiamo più), mitiche e mistiche, di spunti ambientalisti, di nuovi personaggi e di un protagonista in pieno meltdown nervoso come quelli che il regista ci aveva dato in Cigno nero, The Wrestler, The Fountain e It- Teorema del delirio.

Ottima la scelta di un attore completamente privo di ironia come Russell Crowe per questo Noah serissimo, vegano ma, come Abramo, disposto anche a macchiarsi del sangue della sua famiglia. In una Terra (di mezzo) ridotta a una landa desolata e nera il discendente della quasi-estinta stirpe di Seth (il fratello dimenticato di Caino e Abele) apprende da una visione subacquea che Dio (nel film chiamato solo ‘il creatore’) ha intenzione di distruggere la razza umana. Il vecchio nonno Methuselah gli regala un seme da cui nasce la foresta con cui costruire l’arca. Violenti, carnivori, armati fino ai denti e molto brutti, i discendenti della stirpe di Caino, e il loro leader Tubal -Cain (Ray Winstone) si danno alle orge nei pressi del barcone, per saltare a bordo nel caso la storiella del diluvio fosse vera. In un tripudio di digitale arrivano gli animali –prima gli uccelli, poi i serpenti…le prime gocce di pioggia e una sanguinaria battaglia in cui i giganti di pietra difendono Noah e la sua famiglia, chiusi nell’antro cavernoso dell’arca, dall’arrembaggio delle orde di Tubal-Cain. L’atmosfera apocalittica e molto pulp è inframmazzata di momenti lisergici che ricordano le allucinazioni di Requiem for a Dream e in cui Aronofsky inserisce, condensandola in un paio di minuti, la sua versione della Genesi di Malick in Tree of Life.

Gli opinionisti della destra Usa hanno trovato poco cristiani gli spunti ecologici e animalisti del film contrapposti alla bestialità dei nostril simili, ma nessuno di loro sembra aver notato quanta enfasi Aronofsky mette nella sofferenza umana: Noah non sceglie solo di salvare gli animali, ma di lasciare morire davanti ai suoi occhi migliaia di persone (l’effetto della montagna di cavaderi come quella degli zombie in World war Z). Nonostante le sue contaminazioni Marvel e ambientaliste (che fanno tanto pubblico giovane e «hip») Noah è infatti un film serio fino al ridicolo (un’altra caratteristica di Aronofsky). Quando, sull’arca, Noah decide che il suo mandato è di eliminare completamente la razza umana dal pianeta e quindi di uccidere le nipoti che stanno per nascergli, il patriarca guarda invano verso il cielo per un segnale di Dio. Ma dalla nuvole grigie arriva solo un silenzio assordante. Il destino dell’umanità è quindi saldamente ancorato sulla terra in questa parabola contradditoria ma che riflette una riflessione intellettuale autentica, a tratti tormentata, sui testi sacri. E il desiderio di trarne un insegnamento rilevante ai nostri giorni. Come ha scritto anche Jim Hoberman su settimanale di cultura ebraica «Tablet«, Noah è il kolossal religioso piu’ ebreo che sia mai stato realizzato. Più che la Passione vista da Mel Gibson a me ha ricordato L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese, un film profondamente religioso e altrettanto sentito.