Recensendo una messa in scena di Un ballo in maschera al Teatro alla Scala, Eugenio Montale scriveva che il libretto di Antonio Somma sarà anche uno dei più brutti musicati da Giuseppe Verdi, la drammaturgia musicale presenterà delle ridondanze perché liquida solo parzialmente le forme chiuse della tradizione romantica, ma l’opera funziona perché l’azione è cristallina e il colore musicale coerente dall’inizio alla fine. L’unica orma di passi spietati che sentiamo è quella di una versificazione che, sebbene a tratti involuta, riesce comunque a distillare le «parole sceniche» che rendono Un ballo in maschera un dramma efficace ed intenso: quello di un amore impossibile ma inevitabile, di un’amicizia che si spezza per un presunto tradimento e di un destino che si abbatte inesorabile sul potenziale traditore causandone la morte.

NELL’ALLESTIMENTO in scena alla Scala in questi giorni, duole dirlo, l’orma di alcuni passi spietati si vede e si sente ed è quella di una regia tipicamente volumetrica e deambulatoria, per la quale i cantanti si limitano a occupare un certo numero di centimetri cubi di spazio e a muoversi in modo più o meno indipendente da quello che dicono. Rispetto alla regia, di cui pure è responsabile, a Marco Arturo Marelli riescono certamente meglio le scenografie: suggestive le quinte mobili che scompongono in chiave onirica uno sfondo fatto di architetture e affreschi barocchi in trompe-l’oeil che hanno come colore dominante il blu, sostituito nel finale dal rosso acceso del ballo, che riprende quello degli arredi della Scala. Nicola Luisotti dirige con mestiere, senza andare troppo alla ricerca di preziosità, ma sforzandosi di tenere in equilibrio orchestra e palco. Fatta eccezione per i fiati alla fine del preludio e all’inizio della prima scena, il risultato è un suono terso, non troppo invasivo che agevola le voci.

Sondra Radvanovsky, con il suo timbro brunito sebbene a tratti metallico, la grande estensione e un fraseggio sempre calibrato, ci regala una bellissima Amelia

CERTO NON POSSIAMO dire che le voci torrenziali del tenore, del soprano, del baritono e del mezzosoprano avessero bisogno di un tale riguardo, ma è vero che le imbrigliature dell’orchestra hanno permesso di valorizzare le mezze voci, i piani, le messe di voce. Francesco Meli e Luca Salsi sono due dei cantanti verdiani di riferimento in Italia al presente e scolpiscono rispettivamente un Riccardo baldanzoso ma puro e un Renato retto ma ferito, rendendo giustizia ai personaggi con cui Verdi procede nell’esplorazione dell’amicizia virile che avrà il vertice nella coppia Don Carlos-Posa qualche anno dopo.

SONDRA RADVANOVSKY, con il suo timbro brunito sebbene a tratti metallico, la grande estensione e un fraseggio sempre calibrato, ci regala un’Amelia che incarna la forza esplosiva dell’amore trattenuto e allo stesso tempo della virtù, prototipo della ventura Elisabetta di Valois. Lo stesso si dica della Ulrica di Yulia Matochkina, che, parrucca e trucco a parte, rifugge dalle incrostazioni stereotipe della tradizione gravanti sulla vocalità della maga selvaggia. Flebile, sebbene accurata nel belcanto, Federica Guida (Oscar). Repliche fino al 22 maggio.