La voce narrante dell’ultimo libro di Maurizio Maggiani, Il Romanzo della Nazione (Feltrinelli «I Narratori», pp. 304, euro 17,00), è davvero tale, perché dotata di una oralità istintiva e musicale: sembra venuta dal mondo contadino delle veglie nelle stalle o dai primi anni della radio quando le famiglie la sera si riunivano attorno all’apparecchio a sentire le commedie con Emma Gramatica e Ruggero Ruggeri o le romanze d’opera cantate da Aureliano Pertile e Maria Caniglia. C’è un momento, nelle svolte e giravolte e digressioni infinite del suo narrare, in cui vien fuori nientemeno che una teoria del romanzo, come se parlassero György Lukács o Tzvetan Todorov. Mettendosi, credo consapevolmente, contro Henry James o Percy Lubbock e gli altri sostenitori del «romanzo ben fatto», Maggiani sostiene spavaldamente una sua teoria del «romanzo generoso»: «La gran parte dei romanzieri – egli dice – difetta in generosità, pensano di avere una limitata disponibilità di tempo e di pagine, pensano di dover fare in fretta. Così consumano il loro genio ad architettare meccanismi di straordinaria complicazione perché tutto fili liscio e in fretta dove vogliono arrivare». E subito spiattella, in una tipica digressione, un piccolo romanzo costruito attorno a una fotografia e alla vita della moglie polacca del fornaio Bianchetto.
Poche pagine più avanti, ecco che, dopo aver fatto affiorare dalla memoria il personaggio della Mariuccia («La Mariuccia era una rossa con i capelli ricci che sembravano un mazzo di rose di quelle che le spose novelle portavano all’altare per santa Rita»), subito si concede una chiosa: «Santa Rita, la santa delle promesse spose, la santa delle cause perse» e poi, con consapevole provocazione contro i dettami del romanzo ben fatto, arriva una bella digressione: «A tal proposito, anche se qui non c’entra niente, mi viene in mente (corsivo mio ndr) che santa Rita era una monaca agostiniana come Martin Lutero… Quella donna era una terrorista della fede cristiana e il fatto che sia la santa delle spose novelle è a dir poco inquietante, visto che si è fatta autrice, se per supplica o anche per mano non è chiaro, della morte del marito e dei suoi due figli» (e via a raccontare la storia di Santa Rita). I tanti ricordi e lacerti di memoria e riflessioni e digressioni dell’«introspettivo» Maggiani fanno di questo un romanzo autobiografico, pervicacemente dominato dalle giravolte della mente, che percorre la storia avanti e indietro nel tempo, cerca di catturare episodi e misteri (anche oscuri e insoluti) della vita di una famiglia estesa, cresciuta fra La Spezia (porto, modernità, golfi di poeti, guerre, intrighi internazionali) e i paesi di contadini, operai e marmisti della Lunigiana, della Val di Magra, delle Alpi carraresi.
A tenere insieme tanta scorrevole materia autobiografica – e qui Maggiani, a dispetto della teoria e dell’apparente e arbitrario divagare della voce narrante, dimostra nonostante tutto di avere un senso della forma – c’è un elemento strutturale forte, e al tempo stesso ambiguo: il sogno, o l’utopia, della costruzione di una nazione, o del suo fallimento, così come del fallimento della costruzione, su tale materia, di un romanzo. La digressione diviene così, sul piano della forma narrativa, il correlativo oggettivo di una vicenda storico-politica come quella italiana, ma anche la giustificazione del suo fallimento, dovuto ai difetti antichi di un popolo diviso in mille città e paesi e comunità. Il romanzo della nazione italiana è stato avviato come auspicio da Ippolito Nievo, il giovane italiano trentenne, di credo garibaldino e federalista, che narrativamente si è mascherato da vecchio ottuagenario. Il progetto si è incagliato, spesso arenato, sugli scogli della storia. Ne sa qualcosa Enrico Deaglio che, per superare gli ostacoli, ha ricorso, in Patria, al romanzo-documento. Simbolici rappresentanti del progetto sono stati gli uomini della generazione e dello stampo del padre di Maggiani, l’elettricista, lui che, con il suo amico signor Trippi, si era messo in testa «di costruire una nazione con le loro mani». Il vecchio Maggiani, dedito al lavoro dodici ore al giorno, reticente a esibire le esperienza drammatiche di El Alamein o i rischi corsi partecipando alla guerra partigiana o la militanza nelle organizzazioni anarchiche o nel partito comunista (anzi avvolgendo tali esperienze nel silenzio, forse negandole, o sublimandole nei cortei, nelle bandiere e nei canti del Primo maggio), finisce nello scoraggiamento, nel silenzio e nella demenza senile all’Istituto per anziani Giuseppe Mazzini. È stato un costruttore di nazioni; ha creduto nelle sue mani, con risultati disastrosi.
Il figlio Maurizio, le cui mani assomigliano a quelle di un pianista, è stato tirato su dal padre in modo abbastanza insolito: con le sedute serali per addormentarlo che si svolgevano non raccontando le fiabe ma cantando canzonette popolari e romanze (non Verdi, che diede il suo contributo ai progetti e agli auspici della nuova nazione – ma soprattutto Puccini, anche lui introspettivo, e creatore di eroine umili ed esotiche, come Mimì, Liù e Cio-cio-san, non tanto diverse dalla Mariuccia, dalla Cesarina, dalla bellissima Adorna, o di storie truci di Roma capitale), lui di conseguenza ha una sua capacità straordinaria di scrivere romanzi-romanze, orali e cordiali, cantabili. Si sente «un niente, peggio di un niente agli occhi di uno che ha creduto nelle sue mani». È lì, davanti al porto militare di Livorno voluto da Cavour, dove è stata realizzata la più potente e pretenziosa corazzata del mondo; con dietro di sé la storia di un paese che, volendo costruire una nazione, non ha tenuto conto delle differenze tra Versailles o le Tuileries da una parte e dall’altra i palazzi di Stupinigi o di Caserta o il castello di Fratta, tra l’assalto alla Bastiglia e le rivolte di Masaniello o la ribellione municipale della repubblichetta di Portogruaro. E si chiede: «Si sono fregati con le loro stesse mani?»; poi risponde: «Non lo so, non lo so».
Uno degli scogli su cui il progetto si è incagliato è rappresentato simbolicamente dalla madre di Maggiani, una donna a suo tempo bellissima e forte, con un nome significante come «Adorna», che non è mai riuscita a capire perché il suo primogenito si fosse messo in testa di scrivere un romanzo della nazione, o comunque un qualsiasi romanzo. Ma soprattutto è rappresentato dalla sua nonna Anita, anche lei una donna bella e forte, con una dolce cadenza dialettale nella voce (e di voci, così come di fotografie, Maggiani è un collezionista accanito). «Se c’è una cosa che ho chiara in testa – constata – è che nonostante tutto il bene che le ho voluto e che le voglio ancora, l’Anita non aveva la più pallida idea del concetto di Nazione… Quando l’Anita si metteva una mano alla fronte per farsi schermo e cercare di vederci il più lontano possibile, quello che riusciva a vedere era la ferrovia, laggiù dopo il filare di pioppi della proprietà Luciani. Di là dalla ferrovia cosa ci potrà mai essere? Sì il mare. Ma il mare a cosa serve? È forse un riparo il mare? Puoi essere forse in mezzo al mare e poter dire Vèn a sostio né gno’? La casa è un riparo, la casa è la nazione dell’Anita, e l’orto i suoi possessi coloniali. Vèn a sostio né gno’? Forse che le puoi spiegare che la Nazione è magari un riparo anche quella?».
Il modo che aveva l’Anita di porsi di fronte al mondo spiega fin troppo bene le difficoltà che ha avuto l’Italia nel costruirsi una nazione (quello che gli esperti chiamano il «nation building») e anche l’inevitabile sconfitta di chi pretende di scrivere il Romanzo della Nazione, il Buddenbrook o l’Underworld della Val di Magra.