Centinaia di sedie una sopra l’altra, vecchi mobili, camere da letto, oggetti lasciati dagli esuli italiani nel Porto Vecchio di Trieste. Tutti accatastati nel Magazzino 18, anche titolo dello spettacolo di Simone Cristicchi per la regia di Antonio Calenda, che ha debuttato lo scorso ottobre al Politeama di Trieste e sta girando i teatri della penisola. Al centro l’esodo degli italiani dalle terre d’Istria, Fiume e Dalmazia e il dramma delle foibe, uno spaccato di storia complicato e mai risolto che Cristicchi – memore di sue esperienze passate sul palcoscenico (come Li romani di Russia), riprende in un monologo a metà fra il recitato e la canzone.

Nella messinscena Cristicchi è un archivista romano, inviato al Magazzino 18 dal ministero dell’interno per fare un grande inventario. Andatura dinoccolata, soprabito e valigetta, un guascone che si rifà alla mitologia dell’uomo medio incarnato da Sordi in tanti film: arruffone, egoista, ma che nella finzione passa da un disinteresse totale a una più decisa consapevolezza. Un racconto intervallato da una sorta di compendio veloce dei fatti storici che sconvolsero quelle terre dai primi del Novecento al ’47, cercando di contestualizzarne le vicende. E qui Cristicchi inciampa rovinosamente, mettendo in scena uno spettacolo che si basa quasi esclusivamente sul testo di Ian Bernas Ci chiamavano fascisti. Eravamo Italiani, e propone un’interpretazione di quegli accadimenti parziale, se non univoca.

Così la storia tutto ingoia e omologa, senza permettere allo spettatore di valutare le ragioni e i comportamenti che sono stati alla base di quegli eventi; avvicinando anzi pericolosamente le due ideologie contrapposte, comunismo e fascismo, per omologarle. E generando confusione nel pubblico: perché non si possono dedicare tre minuti tre di «riassunto» alle terribili sofferenze portate dal fascismo in Slovenia; lo sterminio di oltre 350 mila sloveni, croati, serbi montenegrini, slavi nelle regioni occupate e/o annesse dal 3 aprile 1941 al settembre del 43, le 35 mila vittime uccise da fame e malattie in oltre 60 campi di internamento per civili sparsi dal nord al sud Italia, che sono fondamentale per comprendere la successione degli avvenimenti.

«Non mi interessa la politica – racconta in un’intervista al Piccolo il cantautore – Mi interessano le storie, e mi interessa continuare a sviluppare, sia a teatro che con le mie canzoni un’operazione didattica della memoria». Ma per ricostruire una successione di eventi così complessa – e dichiaratamente con «fini didattici» – serve un lavoro diverso. Non basta limitarsi a costruire canzoni o, peggio, riutilizzare uno struggente pezzo di Sergio Endrigo come 1947, facendolo passare per un’irredentista. Altrimenti – e ci dispiace perché in passato Cristicchi ha dato prova di sensibilità nel parlare di disagio mentale – si presta solo il fianco al revisionismo storico che avvelena il tessuto sociale di questo paese da troppo tempo.