La vendita è effettuata al miglior offerente. Questa frase inserita all’interno dell’articolo 36 del dl 113/08 (il cosiddetto «decreto sicurezza») rischia di frantumare tutta l’idea alla base della legge 109/96 sul riutilizzo pubblico e sociale dei beni sequestrati e confiscati alle mafie.

Dopo 23 anni dall’approvazione della legge frutto della petizione popolare sostenuta da un milione di firme, dopo una storia nuova e straordinaria per l’antimafia sociale aperta anche e soprattutto da quelle esperienze di riuso sociale dei beni, quelle sette parole rischiano di demolire i principi del riuso pubblico e sociale.

Se i soggetti privati – con diritto di prelazione, tra l’altro, per le fondazioni bancarie – possono acquistare i beni confiscati per scopi propri; se è il miglior offerente la “regola” con cui si può acquistare un bene è chiaro che le logiche del libero mercato rischiano di entrare con arroganza nella normativa sui beni confiscati, mettendo a dura prova il valore sociale del riuso. È come inserire un virus nel software, una sabbia negli ingranaggi del riuso collettivo. I beni confiscati non sono più il modo per restituire il maltolto (per citare lo slogan della campagna che Libera usò nel 1995 per raccogliere il milione di firme) ai territori che hanno subito la violenza mafiosa, ma un bene pubblico da svendere per fare cassa.

Il rischio che la vendita da caso di extrema ratio diventi una prassi è ancora più chiaro leggendo il testo del decreto. Il meccanismo è costruito ad arte: i proventi della vendita saranno assegnati per il 20% all’Agenzia dei beni sequestrati e confiscati. L’Anbsc è una struttura di poche decine di funzionari e ha il compito di gestire un patrimonio di 32.349 beni confiscati; una struttura che va assolutamente potenziata (e che lo stesso decreto prevede di potenziare), ma è preoccupante se questo avverrà non attraverso un investimento diretto, ma attraverso un meccanismo di autosussistenza tramite i proventi derivati dalla vendita. A ciò si aggiunge che il 30% delle risorse destinate all’Agenzia potrà essere utilizzato per aumentare i fondi della contrattazione integrativa del personale.

È chiaro quindi il meccanismo che abbiamo di fronte: spingere l’agenzia a vendere i beni confiscati. In questo modo ci saranno più risorse, più personale e condizioni salariali più vantaggiose.

La vendita finirà per avere una procedura più rapida rispetto al processo di destinazione e assegnazione. Le modalità non le troviamo direttamente nel testo, che rimanda alle disposizioni generali della contabilità dello Stato sulla vendita del patrimonio pubblico: per i beni con valore superiore ai 400.000 euro si procederà tramite lo strumento dell’asta pubblica; per i beni con valore inferiore addirittura si potrà procedere attraverso trattativa privata. Il rischio è dunque duplice: che il bene ritorni all’illegittimo proprietario, al mafioso, o che anche grandi aziende private possano acquistare beni confiscati e iniziare, ad esempio, a produrre prodotti su quei beni come oggi fanno cooperative sociali di giovani nei territori del Sud Italia.

Sarebbe una competizione ingiusta e insopportabile. Decine, se non centinaia di appartamenti e locali nei centri delle grandi città italiane potrebbero trasformarsi, ad esempio, in una ghiotta occasione per grandi gruppi immobiliari per investimenti nel settore del turismo. Anziché investire e pianificare un piano per l’emergenza abitativa o per costruire esperienze di innovazione e cooperazione sociale i beni confiscati potrebbero essere occasione per far accumulare capitale privato a chi già ne ha accumulato troppo.

Siamo di fronte a un pericolo di privatizzazione di una grande fetta di patrimonio pubblico. Sono circa 800 le esperienze di riuso sociale dei beni confiscati, monitorate dal sito www.confiscatibene.it: un numero consistente, ma che ancora non esprime tutta la potenzialità che potrebbe avere il riuso delle decine di migliaia di beni ancora non utilizzati. Un patrimonio che fa gola a tanti.

In questi giorni il Presidente dell’Eurispes ha dichiarato che i beni confiscati hanno un valore pari a circa 30 miliardi di euro e che servirebbe una holding per gestire questo capitale; paragona la holding a una «Iri2» che avrebbe «un capitale sociale più alto di Eni, Enel, Poste Italiane Leonardo, Intesa San Paolo, Generali messi assieme».

Chiunque pensi che un nuovo modello di sviluppo; che nuove occasioni di occupazione e welfare dal basso, soprattutto a Sud, passino anche dal riuso sociale del patrimonio pubblico non può non preoccuparsi e allo stesso tempo dotarsi di tutti gli strumenti giuridici, sociali e politici possibili per impedire che i beni confiscati si trasformino in un interesse privato, ma restino invece un’occasione unica per liberarsi dalle mafie costruendo giustizia sociale. Le mafie non sono semplicemente un problema di ordine pubblico, ma sono una delle grandi “questioni” italiane: un fenomeno sociale, politico, economico, intriso di corruzione e malaffare.

È impensabile credere che sia sufficiente sequestrare e confiscare i beni ai mafiosi per liberarsene. Bisogna invece proprio ora, ancora di più, che da quei beni si moltiplichino occasioni di autonomia e giustizia sociale per quelle persone che vogliono alzare la testa con dignità e libertà.

*Libera