La sentenza è un colpo tremendo per la procura di Roma, che vede cedere l’intero impianto accusatorio. «Questa sentenza in parte ci dà torto», ammette il procuratore Paolo Ielo, annunciando il probabile ricorso in appello. Più che le parole sono i volti scuri dei rappresentanti dell’accusa e quelli raggianti dei difensori a chiarire il senso della sentenza, nonostante le condanne molto alte.

«È una pietra miliare – dichiara Salvatore Diddi, legale di Buzzi – ora so che Buzzi non è un mafioso e neppure Carminati», prosegue.

«Questa sentenza è un modo serio e consapevole di ricordare Borsellino. La mafia è una cosa seria: se tutto è mafia, niente è mafia», infierisce Giosuè Bruno Naso, avvocato di Carminati, che giustamente si accinge a chiedere, dopo 31 mesi, la revoca del carcere duro per il suo assistito.

Non è una sentenza ambigua quella della X sezione di Roma. È al contrario molto netta.

La vera posta in gioco di questo processo non erano le condanne per corruzione, sia pur rese pesantissime grazie all’uso dell’associazione per delinquere «semplice». Era la conferma, che non è arrivata, del carattere mafioso di tale associazione. Sarebbe stata quella a fare giurisprudenza, creando un precedente destinato a stravolgere decine di processi. Avrebbe anche deciso davvero della sorte degli imputati.

Se fossero stati condannati per mafia, Carminati e Buzzi non sarebbero più usciti di prigione, o ne sarebbero usciti decrepiti. Ora potranno usufruire di tutti i benefici previsti della legge, dato e non concesso che condanne così abnormi vengano confermate nei successivi gradi di giudizio.

Sin dall’inizio, in realtà, era apparso evidente che la contestazione dell’associazione mafiosa, in assenza di omicidi, atti di violenza e palesi intimidazioni, aveva poche chance di reggere in tutti e tre i gradi di giudizio. Il perno, in realtà unico, era la presenza di Carminati che, in virtù della sua più volte citata «straordinaria caratura criminale», cioè della sua sola presenza, rappresentava un fattore di minaccia e coercizione.

Tuttavia, alla vigilia del dibattimento, la condanna in primo grado, fondamentale per salvare almeno la faccia della procura, era considerata probabile. Tanto più che la presidente Rosanna Ianniello era considerata elemento a favore dell’accusa. La si riteneva infatti convinta che l’associazione mafiosa non debba essere contestata solo alle mafie «ufficiali», filiazioni delle grandi strutture criminali, ma anche alle organizzazioni autoctone, come i clan di Ostia.

A capovolgere le previsioni è stato il dibattimento, dal quale è emerso che i politici chiedevano favori ed erano pronti a ripagarli senza bisogno di alcuna minaccia. Nessun dubbio quindi sull’estensione della corruzione nell’amministrazione della capitale e neppure sui connotati criminali di Carminati e dei suoi più stretti sodali. Però nessuna mafia.

La sentenza va oltre.

Stabilisce che a Roma erano attive due distinte associazioni per delinquere: quella strettamente banditesca di Carminati e complici e quella finalizzata alla corruzione. Il «Cecato» e il suo braccio destro, Riccardo Brugia facevano parte di entrambe, ma senza che i due percorsi si intrecciassero. È la più clamorosa smentita dell’impianto accusatorio ed è anche la spiegazione della decisione di non condannare ai sensi dell’art. 416bis.

Tra le reazioni, la più bizzarra è quella di Roberto Saviano: «Anche a Palermo la mafia non esisteva. È ora di rivedere un reato applicabile solo a gruppi capeggiati da meridionali». Come se a orientare il verdetto fosse stato il fatto che Massimo Carminati non viene dal Sud.

Anche se nessuno ne parla, questa sentenza inciderà inevitabilmente sul sofferto caso del codice antimafia in discussione in Parlamento, quello che allarga ai sospettati di corruzione il sequestro preventivo già in vigore per i sospetti mafiosi e che è stato bersagliato da critiche al di sopra di ogni sospetto di simpatia per i corrotti.

Tra le due vicende non c’è nesso diretto, ma è ovvio che una condanna per mafia in un processo sulla corruzione avrebbe rafforzato le traballanti argomentazioni dei difensori del codice nella sua versione attuale.