«Lì crescevano alberi di dimensioni immani che nel vecchio mondo non si vedevano da centinaia di anni, sempreverdi più alti di una cattedrale, pecci e tsughe che foravano le nuvole. Le mostruose caducifoglie sorgevano lontane l’una dall’altra, ma in alto i loro rami soffocati dal fogliame si univano a creare un falso cielo, scuro e selvaggio È la foresta del mondo. È infinita. Si attorciglia su se stessa come un serpente che si ingoia la coda, e non ha né inizio né fine. Nessuno ha mai visto i confini più lontani.» Così, nelle prime pagine del suo romanzo fiume, Barkskins, (Pelle di corteccia, Mondadori, pp. 798, euro 24), la scrittrice statunitense Annie Proulx, ci riporta indietro nel tempo all’origine di un’epoca di deforestazione planetaria, ai margini finali del XVII secolo, quando due immigrati europei, René Sel e Charles Duquet, arrivano nel nuovo mondo per iniziare una nuova vita, in quel continente dove potevi fare soltanto tre cose: lavorare, pregare o morire.

TENTARE di riassumere le vicende di due famiglie che attraversano trecento anni di fatiche, ingegno, avventure e disgrazie, modulate in oltre settecento pagine, sarebbe ingeneroso; quel che però non ci si può esimere dall’ammirare è la ricchezza descrittiva della lingua, sulla quale l’autrice ha operato sia in funzione di suggestione, cercando espressione cariche di effetto scenografico, come quelle riportate in apertura, sia in termini mimetici. Silvia Pareschi, già traduttrice dei romanzi di Franzen, Don De Lillo e Zadie Smith, ci omaggia di una lingua densa di termini in francese – la lingua dei capostipiti – e in indiano, note di colore che consentono al lettore di penetrare la foresta narrativa con una lingua precisa e «sonora», concreta, per così dire. Come già si era letto nei classici della Proulx, Avviso ai naviganti (The Shipping News), Gente del Wyoming (Brokeback Mountain), personaggi e ambiente dipendono vicendevolmente, in maniera trasformativa, nel senso che i caratteri degli umani tendono a rispondere alle influenze imposte dal mondo circostante; la lingua dunque non può che diventare mimetica.

«Quando un ramo di ontano gli strappò la giacca, Duquet imprecò a bassa voce. Monsieur Trépagny (il proprietario del destino dei due capostipiti, Sel e Duquet) lo sentì e disse che non doveva mai maledire un albero, soprattutto l’ontano, che aveva proprietà medicinali. Bevvero dai torrenti e attraversarono base rapide, curve come lame di scimitarra damascate I pesci li schivavano e sfrecciavano via, così numerosi che il fiume sembrava fatto di muscoli All’inizio di luglio i pini liberarono nuvole di polline, pennacchi gialli come fumo citrino che fluttuavano nella foresta, mescolandosi al fumo degli alberi bruciati».

DA ANNI rifletto sulle potenti suggestioni che gli spettacoli sontuosi della natura sanno imboccare negli occhi degli autori che si confrontano con questi altri mondi, che ci ricordano com’era la terra prima della nostra modernità. Vengono in mente i passi dei tanti romanzi di Jean Giono, il francese che ci ha regalato L’uomo che piantava gli alberi, Risveglio, Collina, insieme alle visioni letterarie agresti, come quelle tratteggiate da Mario Rigoni Stern e Dino Buzzati – pur nella loro evidente biodiversità, radici per discendenza diretta che hanno fermentato nelle pagine di Mauro Corona quanto nei nuovi autori naturalisti delle ultime generazione (Claudio Morandini, Giuseppe Festa, Folco Terzani, Paolo Cognetti, Matteo Righetto, Leonardo Caffo e tanti/e altri/e).

È PROBABILMENTE un destino per l’artista che dapprima cerca riparo e suggestione nella cosiddetta natura forestale, e poi ne trasferisce su carta occasioni (storie), finire a coltivare un certo grado di animismo, a intravedere legami fra il mondo concreto e un respiro vasto del cosmo, che poi è la base delle idee accarezzate dai fedeli del trascendentalismo e da autori oggi cult come Thoreau, Emerson, Whitman, Melville; così come coltivare una certa passione per la citazione degli antichi maestri spirituali orientali – il saggio Tra la terra e il cielo di Nalini M. Nadkarni, o gli antichi greci e latini, come nel caso dello storico Jacques Brosse, autore, fra gli altri, di Mitologia degli alberi. O ancora ai racconti del poeta australiano Les Murray, quale in Una foresta che lavora, edito da noi nella miscellanea Lettere dalla Beozia.

LA NATURA ci riavvicina alla fatica quanto a una dimensione spirituale. E alimenta talora un certo gusto per il fantastico, com’è capitato all’Antonio Moresco de La lucina e prima, ça va sans dire, al Barone Rampante di Calvino.
Pelle di corteccia però non è soltanto questo. È un’immersione nel mondo spietato di coloro che dalla natura hanno cercato anzitutto di trarre dignità e profitto, lottando per la propria vita, privandosi quasi di tutto, sterminando specie animali e abbattendo alberi immensi che noi oggi non possiamo più conoscere. Il confronto con la diversa attitudine all’esistenza dei nativi nordamericani è quindi rivelatrice: «Sulla natura della foresta avevamo posizioni opposte. Mari (un’indiana appartenente all’etnia mi’kmaq, algonchini) la considerava un’entità vivente, indispensabile come i corsi d’acqua, piena di doni che tutti potevano coprire e ricordare. Con essa si viveva in armonia e gratitudine. Mari riteneva sbagliato continuare ad abbattere alberi con lo sciocco proposito di sgomberare il terreno, ma quelli, pensava René, erano discorsi da donna. La foresta era lì, enorme e illimitata. Il compito degli uomini era assoggettarne l’esuberanza, domare la terra su cui cresceva». Non sono forse considerazioni che si ascoltano ancora oggi, nelle bocche «caste» dei politici, e purtroppo talora anche di tecnici forestali e fautori dello sviluppo senza fine? L’ecatombe in effetti è stata perpetrata, proprio agitando i cuori e le menti degli uomini con queste argomentazioni, oltre che dal basilare bisogno di guadagno che bracca la nostra specie.