Per il governo Maduro l’anno si conclude con un altro successo schiacciante: più di 300 municipi vinti su 335, compreso il municipio Libertador della capitale, dove per la prima volta ha vinto una donna, Érika Farías; la conquista del governo dello Stato di Zulia, che si va aggiungere ai 18 su 23 già conquistati il 15 ottobre; oltre 9 milioni di partecipanti al voto, pari al 47,32% dell’elettorato: una percentuale inferiore a quella delle municipali di quattro anni fa, quando l’affluenza fu del 58%, ma senz’altro degna di nota dinanzi al boicottaggio delle principali forze dell’opposizione.

Se la giornata elettorale si è svolta nella maniera più tranquilla, ad agitare le acque, attirandosi gli strali della stampa internazionale, ci ha pensato però il presidente Maduro, il quale ha dichiarato che, in base ai nuovi criteri dell’Assemblea nazionale costituente, i partiti dell’opposizione che non hanno partecipato al processo elettorale non potranno più farlo e «scompariranno dalla mappa politica». Una dichiarazione, questa, forse non molto condivisa, visto che i mezzi di informazione filo-governativi hanno evitato di rilanciarla.

Quanto all’astensione delle principali forze di destra, Maduro l’ha definita incomprensibile: «Se non vogliono le elezioni, dov’è che vanno? Qual è l’alternativa? Le armi? La guerra?». In realtà, l’argomento della destra è lo stesso di sempre, quello cioè della mancanza di credibilità del processo elettorale, malgrado l’alta affidabilità del sistema di voto elettronico, nuovamente riconosciuta da quelli che in Venezuela vengono chiamati «accompagnatori internazionali». Eppure, per la leader di Vente Venezuela María Corina Machado, delle cui credenziali democratiche parla la sua partecipazione al colpo di Stato del 2002 contro Hugo Chávez, si è trattato di «elezioni nulle, convocate da una Costituente illegale, organizzate da un Consiglio elettorale fraudolento, sotto occupazione militare».

La verità è che l’opposizione sembra davvero mettercela tutta per perdere consensi, disperdendo in due anni, dalle elezioni legislative del 2015, qualcosa come 2,8 milioni di voti.

Come se non bastasse il discredito accumulato con quasi quattro mesi di violenze di strada e con la sua richiesta di sanzioni internazionali di cui è soprattutto il popolo a fare le spese, la destra non è stata neppure capace di una strategia unitaria, a volte anche a causa dei pessimi “consigli” degli Stati uniti: divisa in occasione delle elezioni regionali, quando quattro governatori su cinque eletti con la Mud hanno accettato di giurare di fronte all’«illegale» Assemblea nazionale costituente (è stato il rifiuto del quinto, Juan Pablo Guanipa, nello Stato di Zulia a determinare la sua destituzione e il ricorso a nuove elezioni); divisa in relazione al processo di dialogo con il governo avviato nella Repubblica Dominicana; divisa di fronte alle elezioni di domenica, rispetto a cui i maggiori partiti hanno scelto la via dell’astensione – saltando dunque dalla destabilizzazione violenta alla partecipazione alle regionali e infine all’attuale boicottaggio delle municipali – ma alle quali hanno invece preso parte altre forze dell’opposizione, come Un Nuevo Tiempo e Copei.

E tutto ciò a fronte di una ripresa di iniziativa da parte del governo, il quale, pur tra tanti errori e con i ben noti limiti, ha saputo uscire dall’angolo in cui lo aveva spinto la violenta offensiva delle destre, preservando l’unità attorno al presidente, puntando sul senso di appartenenza rivoluzionaria delle classi popolari e attivandosi su vari fronti, dalla lotta alla corruzione nell’industria petrolifera al lancio della criptomoneda petro, fino alla legge sui Prezzi concordati, un meccanismo di supervisione dei prezzi di alcuni prodotti come frutto di accordi volontari con le parti interessate nell’ambito di una politica di rilancio produttivo.