Cannoniere puntate contro il Venezuela, che non si piega ai poteri forti. La prima bordata arriva, ovviamente, dagli Usa. La seconda, da un suo vassallo storico, l’Italia. Nel primo caso, ad annunciare i colpi che stanno per abbattersi sul paese bolivariano, è stato il segretario di Stato Rex Tillerson. L’ex capo della Exxon Mobil ha un contenzioso aperto con Caracas fin dai tempi di Chavez. La sua compagnia è una delle poche ad aver rifiutato le condizioni poste dal governo per continuare a far affari in Venezuela senza portarsi via tutta la torta, come avveniva nella Quarta repubblica. Da qui una vertenza multimilionaria aperta nei tribunali di arbitraggio, manco a dirlo basati negli Usa.

Intanto, la Exxon mobil ha deciso di procedere arbitrariamente all’estrazione di petrolio nelle acque contese dell’Esequibo, entrando in questo modo nella storica disputa tra Venezuela e Guyana, di competenza internazionale. I presidenti dell’America latina progressista hanno invitato Trump a impostare relazioni di rispetto con l’ex cortile di casa. Tillerson ha però indicato che intende procedere in direzione contraria. La sua intenzione è quella di favorire “una transizione alla democrazia in Venezuela”: la “democrazia” che piace agli Usa, ovviamente, non quella “partecipata e protagonista” che vige in quel paese, certificata da una ventina di elezioni, l’ultima delle quali ha dato all’opposizione la maggioranza in Parlamento.

Una maggioranza che però non basta a sovvertire il sistema di equilibrio dei cinque poteri previsti dalla costituzione bolivariana. E questo non piace agli Usa, che promettono di attizzare l’ossessione antichavista del segretario dell’Osa, Luis Almagro, e di applicare la Carta democratica interamericana al governo Maduro: un sistema di sanzioni, economico e politico, sul modello di quello tutt’ora in vigore contro Cuba.

Su questo, Tillerson ha promesso continuità con le decisioni di Obama, che prima di lasciare l’incarico ha rinnovato per un altro anno le sanzioni al Venezuela, considerato addirittura “una minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza degli Stati uniti”. Sanzioni richieste da gran parte dell’opposizione venezuelana che auspica il ritorno al modello Fmi.

Per questo, il segretario di Stato “trumpista” ha detto di contare su un’alleanza tra Brasile, Colombia e Osa, onde moltiplicare nel continente il modello dei golpe istituzionali, degno correlato delle “rivoluzioni colorate”.

Sulla stessa linea si situa la mozione presentata in Senato da Pierferdinando Casini, presidente della Commissione affari esteri e condivisa anche dal Pd. Un testo discusso con procedura d’urgenza per assumere in toto la posizione della destra venezuelana, e per chiedere all’Italia e all’Europa di intervenire: per “ripristinare la separazione dei poteri e salvaguardare le attribuzioni dei diversi organi costituzionali” in Venezuela…

La mozione è stata rinviata per l’opposizione dei 5 Stelle, di Sinistra italiana e anche della Lega nord (non per motivi di merito, ma di priorità). Verrà però votata oggi (in concomitanza a quella presentata alla Commissione analoga in Parlamento da Cicchitto) insieme a una mozione alternativa, presentata dalla senatrice Ornella Bertorotta, capogruppo dei pentastellati. Il testo del M5S impegna il governo italiano ad avviare un dialogo con quello venezuelano, sottolineando che la situazione descritta da Casini non corrisponde a quella reale.

A sostenerlo sono infatti diversi organismi internazionali – Fao, Cepal, Unesco, G77, Mnoal, Unasur… – i cui dati non indicano affatto la “crisi umanitaria” pretesa dalle destre per giustificare le ingerenze esterne. E, d’altro canto, che certi politici fautori dei tagli sociali e delle spese militari in Italia diventino paladini dei “diritti economici” in un paese che a tutelarli dedica oltre il 70% delle sue entrate, dovrebbe pur far nascere qualche sospetto.

Ma tant’è. Molti di quelli che parlano del Venezuela non sanno neanche dove si situi sull’atlante, tanto meno ne conoscono la storia. Ieri, il Venezuela ha ricordato il “23 enero”: la cacciata del dittatore Marco Perez Jimenez, partita dal quartiere che poi prenderà il nome da quella storica data, il 23 gennaio. Una resistenza guidata dal Partito comunista e dagli ufficiali progressisti in un’alleanza tra forze di sinistra e nazionalisti (la Junta Patriotica).

Una resistenza “tradita” perché, in seguito, Washington ha cercato di tutelarsi contro “il pericolo rosso” governando un’alleanza tra centrodestra e centrosinistra che ha escluso i comunisti dal potere fino all’arrivo di Chavez, il 6 dicembre del 1989. La sinistra venezuelana, allora, si spaccò fino alla lotta armata contro il “patto di Punto Fijo”. Il giovane giornalista deputato, Frabricio Ojeda, leader della Junta Patriotica, era stato eletto nel Partito Union Republicana Democratica (Urd), una delle formazioni incluse nel Patto di Punto Fijo.

Scelse, però, di dimettersi e organizzò la guerriglia nel solco della rivoluzione cubana. Condannato in seguito a 18 anni di carcere, verrà trovato impiccato in cella. Ieri, le sue ceneri sono state trasferite dal Pantheon nazionale di Caracas.

L’opposizione ha deciso di abbandonare il dialogo sostenuto dalla Unasur e dal papa Bergoglio. Ieri è tornata a manifestare per chiedere la caduta di Maduro: “Questa – ha detto l’ex candidato presidenziale Henrique Capriles – è l’ultima manifestazione annunciata. Le altre saranno a sorpresa”. Nel 2014, le manifestazioni violente per far cadere il governo (le “guarimbas”) hanno provocato 43 morti e oltre 850 feriti.