«Non si può capire la transizione spagnola senza di lui». Gli storici si affannano a ribadirlo in queste ore, e hanno ragione. Parlano di Adolfo Suárez, il primo presidente del governo spagnolo dell’epoca democratica morto domenica scorsa a ottantuno anni anni dopo essere stato a lungo malato di Alzheimer.

Migliaia di persone, ieri, hanno atteso alla porta della camera ardente per dare l’ultimo saluto a uno degli artefici del passaggio del paese iberico dal franchismo alla democrazia. Chiamato alla presidenza del governo dal re Juan Carlos I – un altro dei protagonisti della transizione, che ha espresso ieri grande gratitudine nei confronti dell’ex leader de la Unión de Centro Democratico – ebbe il difficile compito di compattare il paese spaccato dalla dittatura e di aprirlo al mondo e alla modernità, aprendo il processo costituente che portò alla Carta democratica e legalizzando i partiti di sinistra.

Nell’immaginario dei giovani, nella memoria dei più adulti e nel ricordo dei leader politici spagnoli, quello di Adolfo Suárez resta un nome associato all’idea di libertà, al di là e al di sopra delle sue posizioni politiche, spesso controverse e polemiche al punto da indurlo alle dimissioni, che presentò pochi giorni prima del colpo di stato del 23 febbraio del 1981 che rischiò di far precipitare un’altra volta il paese nelle tenebre della dittatura. «Non voglio – disse in quell’occasione – che il sistema democratico di convivenza sia una parentesi nella storia di Spagna».

Grazie anche alle sue scelte, alla sua politica di compromesso, il suo desiderio è stato esaudito.